Una Norma poco normale

(Carmelo Fucarino)

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Giuditta Pasta da Wikipedia

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Teatro Massimo

 

Nota di servizio. L’opera Norma, tragedia lirica in due atti di Vincenzo Bellini, libretto linguisticamente assai datato di Felice Romani, fu presentata alla Scala il 26 dicembre 1831 con accoglienza freddina. Se S. Stefano non gli fu propizio, l’indomani andò meglio dati i grandi interpreti, i mattatori del tempo Giuditta Pasta e G.B. Rubini. Bellini aveva trent’anni e gli restavano soli quattro anni di vita. Dall’Enciclopedia della Musica Garzanti: «Con Norma Bellini raggiunge l’apice del proprio lirismo vocale, affermando nel contempo una forza drammatica che si rivela sia nella maestosa e incisiva chiarezza dei recitativi, sia nella solennità ora ieratica ora ritmicamente violenta della massa corale, che fa da sfondo alla tragedia come un grande affresco». Si badi a quella antica ieraticità resa nel modo orrendo di clinica psichiatrica. Cosa fu l’opera si sa dalle riprese di Verdi, ma soprattutto da Wagner, non tenero con l’opera tradizionale, ma appassionato ammiratore di Bellini e di questa opera che diresse a Riga nel 1837. Egli ebbe poi a confessare che la prima idea della struttura scenico-musicale della morte di Isotta gli fu suggerita dall’invocazione di Norma, Deh, non volerli vittime. Sarebbe offesa ai melomani ricordare, Ite sul colle o Druidi, Meco all’altar di Venere, Guerra, guerra, In mia mano alfin tu sei, Qual cor tradisti. Ma chi non ha vibrato di amore e di commozione all’immortale Casta diva, cavallo di battaglia di tante “dive”, a cominciare dalla notissima, sempre risentita lettura della Callas. Prima il recitativo “Sediziose voci”, poi la scena e cavatina cantabile, con il canto barbaro e classico alla luna, la Lucina dei Romani. Come nel precedente Mozart, mi è sembrato di non aver percepito i recitativi. Nella didascalia Norma: «Falcia il vischio: le Sacerdotesse lo raccolgono in canestri di vimini. Norma si avanza, e stende le braccia al cielo. La luna splende in tutta la sua luce. Tutti si prostrano». Struttura complessa delle due quartine, capolavoro in forma di romanza con quel dialogo fra flauto e oboe e le sestine dei violini.

 

E i versi:

Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.

Tempra tu de’ cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.

E il tema sempre tragicamente presente, nell’Ottocento e oggi nella cronaca quotidiana della Medea. Qui una Medea, mancata, ma sempre tragica nell’orrendo pensiero che la sfiora. Da ammirare almeno che la grandiosa ouverture ci è stata donata a sipario chiuso senza farneticanti intrusioni meta-teatrali e allusioni nudistiche. Molti registi, interpreti dell’acqua bollita (i Romani preparavano raffinate grandi bevande di decotto di acqua), dimenticano che questo pezzo introduttivo fu scritto e suonato in attesa che il popolo vociante e mangiante si sedasse. E almeno ci è stato risparmiato per questo pezzo di estrema bravura orchestrale, la nostra musica tradizionale all’italiana, orecchiabile e cantabile, la sceneggiata di scomposte evoluzioni cerebrali e culturistiche. Perché poi l’opera è scorsa nella sua ineluttabile resa, senza grandi trasalimenti. Chi vuol riudire i brividi di Casta diva si faccia un giro in internet tra la memorabile Callas, una Joan Sutherland, una Montserrat Caballé e una Renata Scotto. E tante altre glorie. C’era da far tremare le vene e i polsi. Non ho capito la sceneggiatura, perché comunque, a Siracusa come al Massimo, è difficile conciliare una spada con una mauser, un cavallo con una fuoriserie. Basti fare attenzione alle parole cantate e alla realtà scenica per trasformare una tragedia lirica in una commedia degli equivoci alla Totò. Sui risultati artistici tutti all’intervallo e all’uscita hanno detto il tutto e il contrario di tutto. Cantanti straordinari, cantanti da avanspettacolo. Bella voce la Csilla Boross, no meglio Aquiles Machado o forse Annalisa Stroppa, forse… Ma alla fine del primo atto lo scandalo e l’offesa dei benpensanti, il buu e il “Tornatene a casa”. La prima volta in una perbenistica prima, fra gentiluomini, veloci a baciare i guanti alle dame. Come se fosse stato un pensiero ricorrente e tale non è voluto e potuto essere, in un quotidiano nazionale Natalia Aspesi riempiva ieri 19 giugno due pagine sulla recriminazione del neo contestatissimo sovrintendente della Scala, Alexander Pereira (viennese nonostante il nome portoghese), che, viste le recenti sue personali disavventure, giuridiche e non, quelle di eccelsi direttori di orchestra (vi ricordate Daniel Barenboim?), scenografi e registi, mette le mani avanti e dichiara che chi fischia allontana le star del belcanto dalla Scala. A parte il fatto che potrebbe allontanarli dai maxi contratti delle case discografiche, non sarebbe una sciagura l’accensione. Naturalmente occorre rimarcare le differenze. A Palermo non è mai esistito un loggione e gli applausi si sono sprecati, da spellarsi le mani, anche quelle alle rinnovantesi sedie volanti e ai nudi integrali di cattivo gusto, alle incaute attualizzazioni da baraccone. Non esiste una così variegata serie di loggionisti come alla Scala, fino al criticissimo “Il Corriere del Grisi” (leggere in web per credere). Se nel 1840 fu fischiato Verdi, non ebbero miglior sorte Pavarotti, la Callas, la Scotto, la Ricciarelli, quella che inveì “Dio vi maledica”, mentre il consorte Baudo inseguiva i suoi contestatori. E si trattava di un fatto estremamente personale. Fino all’uso malavitoso dei gruppi assoldati pro Callas o pro Tebaldi. La serie di offesi è lunga e non la rivanghiamo. C’è da sottoscrivere, data l’esperienza dell’altra sera palermitana, la precisazione della Aspesi: imbavagliare i «circa 200 melomani di cattivo carattere ma sublime passione musicale esigerebbe per senso di equità, anche il fermo di chi al contrario applaude forsennatamente, con grida di giubilo e tutti in piedi per un tempo lunghissimo». E ancora «Una Scala senza intemperanze né festosità né scontro, né insulti, diventerebbe noiosissima, smorta, sbadigliante, palcoscenico di politici, di stilisti e di anziane bellone». E infine: «Molti spettatori confondono la regia con la scenografia e i costumi» e conservano immutabile nostalgia per l’Aida di Zeffirelli, «quella piena di schiavi nudi». Eppure Leo Nucci, a noi ben noto e amato, si può vantare di non essere stato mai fischiato in 37 di Scala e aggiunge contro l’arroganza di qualcuno: «tanti artisti non dovrebbero cimentarsi in prove per le quali non sono preparati o adatti».

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