La stagione del Centenario a Siracusa
(Carmelo Fucarino)
Busto dei Musei Capitolini
Gli anniversari certe volte per la loro portata storica simbolica finiscono per mortificare l’occasione della ricorrenza. È capitato al Teatro Massimo che ha voluto celebrare l’anniversario della sua inaugurazione con un’edizione del Don Giovanni di Mozart, sicuramente non all’altezza dell’evento che si voleva esaltare. Così è avvenuto per questa occasione unica della celebrazione siracusana, un evento che non si potrà più verificare per altri cento anni. Che è quanto dire, anche se per la longevità secolare del teatro e per la vitalità delle sue rappresentazioni un secolo è poca cosa. Per chi conosce la storia di queste pietre erose dalle intemperie e dalla devastazione degli animali, ma soprattutto degli uomini, non può non sentire i brividi sulla pelle, chiudendo gli occhi e vedendo Eschilo, il vecchio quasi settantenne, canuto, pelato e con la barba crespa, come è rappresentato nella iconografia classica, passare su quegli spazi per noi immaginari, su quella scena che allora era certamente diversa. C’è da impazzire nell’osservare il suo incedere risoluto su quella scena.
Perciò è poca cosa un secolo da quel 1914, quando un aristocratico innamorato di Siracusa e del suo teatro ridotto ad uno scheletro volle far rivivere il prodigio di un rito che si era mantenuto per secoli in quel preciso sito. Con tutte le mutazioni che può produrre lo scorrere del tempo. Già dopo, in epoca alessandrina, il teatro era mutato, era materialmente trasformato, diversa era l’architettura della scena, ma anche diversi i testi che vi venivano recitati. Il Coro che era stato all’origine il deuteragonista si era trasformato in una qualsiasi canzonetta danzata, da adattare per l’occasione. Nei testi teatrali rimaneva la semplice indicazione perì choroù, “posto per il Coro”. L’agon, l’azione, regolava l’intera recita. E con molta probabilità il successo era opera degli attori mattatori. Poi anche sul teatro di Siracusa si impose il teatro popolare, di fruibilità plebea e ad un certo punto cadde semplicemente l’oblio. Il marmo fu appetibile, preda di barbari e chierici che ne adornarono moschee e chiese. La ripresa delle rappresentazioni nell’antica cavea di epoca romana, ormai devastata e irriconoscibile, per depredazioni di musulmani, normanni e spagnoli, era un’idea grandiosa, atto di amore verso la città delle glorie dei Dionisi e dei bizantini fulgori. E questo tributo alla perla del Mediterraneo che aveva gareggiato in ricchezza e cultura con Alessandria tolemaica era rivolto a quelle sue origini grandiose di epoca dionisiaca quando si decise di costruire un vero teatro in pietra e di chiamare a rappresentare le sue tragedie, il più grande, il sommo, il divino Eschilo. E il poeta tragico venne due volte e l’ultima vi restò sepolto a Gela sulla cui tomba ancora Pausania leggeva l’epitaffio con le sue gesta di maratonomaco. Fu questa la grande intuizione del conte Mario Tommaso Gargallo e la gloria che Siracusa e tutta la società globale devono tributargli. Poco importa se la rappresentazione di questo anniversario non è stata all’altezza. Forse le attese erano troppo grandi in una data così impegnativa. Resta il fatto che anche quest’anno tanti innamorati del luogo, non-luogo della psiche, ritornino e si sentano parte di un rito, respirino quell’atmosfera di indescrivibile malia e durante quelle serate tra ruderi di rocce sbrindellate sentano sulla pelle e nel cuore l’alito del divino e dell’arcano. Da amante del teatro greco devo obiettare che non si possono accorpare in un’unica serata due tragedie dell’unica trilogia a noi pervenuta, con un improbabile lavoro di taglia e incolla. Qualunque altro autore o gruppo di drammi poteva essere presentato, ma sicuramente mai l’unica trilogia a noi nota, soprattutto perché in Eschilo e ai suoi tempi la tetralogia era un unicum inscindibile, perché sviluppava lo stesso nucleo mitologico e ne ritmava i processi ideologici con il dovuto stacco cronologico e topografico. La messinscena poi. Da un po’ di tempo, in tutti i teatri di opere serie, tragedie o opere liriche, si comincia a privilegiare la scenografia con estrapolazioni contestuali che nulla hanno a che spartire con il testo e la prassi teatrale. Estenuante perciò la perfomance di sepolti vivi di invenzione scenica extravagante. La recitazione urlata, anche quando si dovrebbe estrinsecare un sentimento di tenerezza fraterna sussurrata, la musica a cifre pazzesche di decibel, quelle torri orrende di amplificatori che bombardano i timpani e danno pugni al cuore. Gli urli a cui ci ha abituato il turpiloquio di un comico che si ritiene genio politico. E le danze che sembrano più espressioni di tarantolati e di ossessi, che non preghiere e canti di gioia. Tutto uno strisciare e un rivoltolarsi sulla scena. La tragedia ha altri ritmi, altre soluzioni, che non comportano né abbagli di luci né rintronamento di assordanti rumori spacciati per musica. Si pensi a quella sera del 16 aprile 1914 e all’edizione del solo Agamennone, la traduzione di Ettore Romagnoli che curava anche la direzione artistica e le musiche, l’invenzione scenica di Duilio Cambellotti che diventerà canonica. Certo, scene e costumi sono quest’anno di Arnaldo Pomodoro, ma vi fu nel 1960 un Agamennone di Pasolini, regia e recitazione di Gassman, musica di Angelo Musco. Che dire poi della commedia! Il povero Aristofane ha fatto la figura dell’incapace. Perché oltre tutto si pretende di sbellicarsi dalle risate, come se la commedia antica, che era connotata, a cominciare dalla forma emblematica e irripetibile della parabasi, in ironia, satira, in stravolgimento parodico, il portentoso Witz, dovessero essere azioni atte a provocare soltanto il riso. Si aggiunga la particolare connotazione dell’attore comico, che deve essere particolarmente dotato. Chiunque, nel modo della recitazione corrente, può interpretare un ruolo tragico. Arduo, impossibile essere attore comico se non si ha la dote specifica. Non so come rese Pino Caruso il protagonista Filocleone, ma certo gli avrà dato maggiore credibilità. Fu nel ciclo XXXIX (2003) che assieme ai Persiani (ancora Piera Degli Esposti nelle vesti di Atossa) e alle Eumenidi di Eschilo fu data la commedia nella classica traduzione di Raffaele Cantarella. Forse da elogiare gli unici che nulla avevano a che fare con Aristofane, gli straordinari inventori di gag, la Banda (in qual senso?) Osiris. L’adattamento scadeva talvolta nel ridicolo degli accostamenti impropri e degli squinternati ammiccamenti. E da rimpiangere anche i nomi gloriosi delle traduzioni dei testi classici, senza melense sciatterie che vogliono definirsi linguaggio usuale e facile, da coiffeur. Qualcuno accostava criticamente le asperità e le dissonanti blasfemie semantiche di Sanguineti, ma si dimenticava di Salvatore Quasimodo e Vincenzo Consolo (assieme a Del Corno), di Pier Paolo Pasolini, per non citare altri professori titolati Bignone, Cesareo,Valgimigli, Diano, Gigante, Albini, Pagliaro, Cantarella e l’inossidabile gigantesco Romagnoli. Senza nulla voler togliere alla professionalità di Monica Centanni e ai suoi propositi di destrutturazione e adattamento del linguaggio classico. Vorrei dire al prof. Alessandro Grilli, tutto si può aggiustare, anche Vivacleone e Abbassocleone (nel 2003 Schifacleone), ma poi non si può cancellare la misteriosa insistenza su Frinico o la lunga tirata sulla famiglia Carcino ateniese (era noto anche un Càrcino poeta tragico di Agrigento), esemplari teatranti del tempo, ma ignoti agli scolari odierni e agli adulti di raffazzonata e presuntuosa cultura. E tante altre caricature dell’anno 424 a. C. in Atene.
condivido pienamente il giudizio negativo del prof .Fucarino ; fra i tanti spropositi della regia il professore benevolmente omette di ricordare la comparsa di agamennone che ,reduce da Troia , si presenta sulla scena sbucando da un tumulo gia’ pesantemente coperto,e , andando incontro a Clitemnestra , indossa un’armatura ( presago della fine imminente ? – ma non
pare !) . Numerose, a mio avviso , le cadute anche nella recitazione della trilogia .Cio’ che non é mancato é soltanto l’aspetto spettacolare ,buono per un pubblico distratto . Rosario Gino