«Ah certo è l’ombra!»

(Carmelo Fucarino)

image

Sicuramente ad essere definito “dramma giocoso” (K 527), potrebbe apparire un eufemismo. Nella catalogazione di Ludwig von Köchel e nell’elaborazione geniale di Lorenzo Da Ponte e dello stesso Mozart, doveva essere immaginato e inquadrato nell’ambito di questo specifico genere lirico. Ma se si segue con scrupolo lo sviluppo dell’azione, nonostante la leggerezza dell’impianto e lo scherzo persistente dalla prima all’ultima scena, così potrebbe sembrare soltanto a prima vista. Tutto opera contro a cominciare dalla tremenda ouverture, composta a soli due giorni dalla prima di Praga del 29 ottobre 1787, su richiesta del Teatro regio che voleva una parte di protagonista per il baritono italiano L. Bassi, il recente trionfatore nelle Nozze di Figaro. In essa c’è già, secondo Gounot, la “presenza dell’abisso, di un’amara e vertiginosa seduzione”. Perciò quasi nello stilema di un romanticismo ante litteram è invalsa la prassi di chiudere l’opera con la morte raccapricciante del seduttore, un vero e proprio tenebroso suicidio, tagliando il sestetto dell’originaria stesura, che serviva a ricomporre le fila della sconvolta realtà. In questa chiave tragica non poteva che essere risolta da Gustav Mahler nella sua celebre direzione viennese. Così è ripresentata da Stefano Renzani che addirittura, in altra moda recente circolata in questo teatro, ha voluto sceneggiare la solenne ouverture con un improbabile seduttore braccato e nell’estrema nudità e spossatezza posseduto da una schiera di silfidi assatanate.

La critica recente invece ha rinvenuto la coerenza e la validità del finale originale in ossequio al semigiocoso in equilibro con l’amore per il “raisonnable” mozartiano e non ha trovato l’abissale demoniaca tragicità del protagonista in contrasto con la levità giocosa di tutti gli altri personaggi (cf. la recente lettura della Neue Mozart-Ausgabe). Io direi di più che l’estrema profondità luciferina di don Giovanni è esaltata dalla controfigura di Leporello. Poi tutta la galleria di tipi, in una sarabanda di temi e di partiture, la completa estrinsecazione di tutti gli espedienti operistici. Sia il tema ricavato dal lontano El burlator de Sevilla di Tirso de Mollina del 1630 o da Il convitato di pietra di Gazzaniga del 1787, l’invenzione di librettista e musicista ha creato un capolavoro, non solo dell’opera, ma anche della letteratura di tutti i tempi, tanto da gustarsi senza difficoltà musicali e lessicali per ben due ore e quaranta. D’altronde il tema dalla sua primitiva invenzione ha circolato per quasi quattro secoli, cavallo di battaglia di tanti drammaturghi di diversa temperie culturale. Bastino solo alcuni grandi interpreti: così Molière con la tragicommedia del 1665, il Don Giovanni Tenorio di Goldoni del 1736, il poema di Byron del 1822, il dramma di Puškin del 1830, il Diario di un seduttore di Kierkegaard del 1841, il dramma di G.B. Shaw del 1887, fino alla commedia di Dacia Maraini del 1976 o al Don Giovanni o il dissoluto assolto, pièce di José Saramago del 2005. Uguale coinvolgimento ha avuto soltanto un altro tema demoniaco, la dannazione di Faust. Basti immaginare quale impatto poteva avere sulla bigotta Vienna imperiale un tema così luciferino e un’irrisione così sconvolgente dei costumi, quello sberleffo alla morale comune. Perciò il taglio della scena 20 e la morale: «Questo è il fin di chi fa mal; / E de’ perfidi la morte / Alla vita è sempre ugual». Fu lo scandalo di un demonio punito, con quella apparizione orrenda e terrificante di un convitato di pietra? E quello sfrontato e provocatorio terzetto Don Giovanni a cenar teco? Secondo altri, fu la volontà di Mozart di chiudere l’opera in re minore come l’ouverture, dando alla struttura una movenza ciclica. Il Teatro Massimo non poteva trovare migliore allestimento, dopo dodici anni dalla sua ultima presenza, in occasione della celebrazione dell’anniversario della sua inaugurazione (16 maggio 1897 con Falstaff di Verdi). Ma… Alle intenzioni alte e meritorie non sono corrisposti i fatti. E di ciò ognuno può dare colpe o incapacità. L’allestimento purtroppo non è stato all’altezza di un’opera e di una data che meritavano di più che questa lettura musicale incerta e senza particolari slanci, se non nella gestualità del direttore, di più dalla interpretazione del protagonista appiattito sulla comicità del sosia Leporello. Nulla di nuovo nella monotonia ruotante della scenografia di Angelo Canu, già ossessiva nei recenti spettacoli, quasi a volere provare i meccanismi scenici incompleti del teatro. Mi è sembrato, ma potrebbe essere stata una mia impressione, di non avere trovato alcuna diversità o stacco sonoro tra canto a piena voce e recitativo. Così poco convincente la sequenza episodica conferita da Amato all’opera senza una vera unità ideologica. Non certamente sconvolgenti i costumi alludenti nelle versioni antitetiche di epoche lontane allestiti da Marja Hoffmann. Il protagonista Carlos Álvarez ha poco convinto, nonostante la fama di interprete qualificato nelle vesti del personaggio, sia in sicurezza sia in originalità di canto e interpretazione; a lui ha tenuto degno bordone il leggero ed arioso Leporello-Marco Vinco. Tutti da Tomislav Muzek (don Ottavio), da Michail Ryssov-Commendatore, Maija Kovalevska- Donna Elvira, Rocio Ignacio (Donna Anna), agli ingenui Biagio Pizzuti (Masetto) e Barbara Bargnesi (Zerlina), si sono mantenuti nei limiti di una decente lettura, senza particolari accensioni, nonostante i benevoli applausi talvolta a sproposito e fuori tempo. Non so se dovuti ad ignoranza e scarsa dimestichezza all’opera cittadina o ad allegria di gruppi di turisti in vestiti da escursione. Certamente nelle orecchie e sulle labbra di tutti ha continuato a risuonare quel motivetto insistente e ammaliatore di Là ci darem la mano. E in questo clima di umana solidarietà ed amore ci siamo ripromessi di rinsaldare i vincoli europei in nome del giovane trentunenne Mozart, del padre e della sorellina Nannerl a mietere successi nei teatri europei e ad unire all’unisono i popoli trascinati dal canto e dalla musica. Perché Mozart è anche questo, a differenza di Wagner, è la cantabilità dei suoi motivi, proprio da canzonetta, quasi quei motivetti che ci sciolgono l’animo, anche quelli delle geniali, divine sinfonie, adattati a motivi di slogan commerciali.Questo basti per un capolavoro per il quale occorrerebbe un libro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy