Palermo 11 Aprile 2014. Liceo Garibaldi.
(Lavinia Scolari)
Carlo Barbieri cammina davanti a me con una borsa nera guardandosi in giro. Dopo un po’ di anni, come ci confiderà alla fine, sta varcando le porte di quello che era stato il suo liceo e sta per sedersi dall’altra parte delle “barricate”. Non so se sia emozionato o meno, ma di certo è curioso di scoprire cosa accadrà. Perché, per uno scrittore come Carlo, la vita, al pari dei suoi romanzi, non è un piano dettagliato e pre-costruito, ma una scoperta. L’occasione dell’incontro al liceo Garibaldi è la presentazione dell’ultimo romanzo del nostro autore, “Il morto con la zebiba”, per Todaro Editore, dove compare un personaggio ormai caro ai lettori di Barbieri: il commissario Francesco Mancuso, che abbiamo imparato ad amare nel precedente “La pietra al collo”. L’invito all’autore viene dalla Prof.ssa Gabriella Maggio, che ha coinvolto le sue classi in un’appassionata lettura di questi romanzi. Carlo rompe subito il ghiaccio con i ragazzi: una battuta alle prime file, un’altra alle ultime, e così accentra l’attenzione di un’intera aula di giovani.
Ci sistemiamo e senza perdere altro tempo iniziamo la nostra conversazione dalle presentazioni. Partiamo quindi dalle origini, da dove tutto è cominciato: la nostra Palermo. «Palermo è come una scacchiera, di bianchi e di neri» afferma Carlo. «Non ci sono grigi. C’è la munnizza da un lato» ed è una “munnizza” reale e metaforica «e Falcone e Borsellino dall’altro». Una città alla quale ci si sente legati soprattutto quando la si perde o la si lascia. Perché, come spiega bene lo scrittore, solo quando ti allontani da un dipinto, ne puoi cogliere l’insieme, e questo accade a chi lascia Palermo.
Ed è quello che è accaduto anche a Barbieri, che ha una vita piuttosto avventurosa o, come preferisce dire lui, ha avuto diverse vite. Dopo aver vissuto sette anni al Cairo, oggi passa la maggior parte dell’anno a Roma e il resto del tempo a Mondello, nella sua Sicilia. Si definisce infatti un «siciliano di mare aperto, ma con una lunghissima gomena a Palermo». Chimico nella sua “prima vita”, marketer nella seconda e scrittore nella terza. Chissà se si fermerà qui o se ha già in mente una quarta “pelle”! Gabriella Maggio lo definisce un autore “istintivo”. Difficile ingabbiare la sua narrativa in una teoria letteraria o poetica. Barbieri sfugge alle gabbie teoriche. La sua è una scrittura intensa, sentita e mai pesante, con lampi di leggerezza anche quando affronta problemi delicati e – purtroppo – di grande attualità, come la pedofilia di certi ambienti ecclesiastici, la criminalità organizzata e lo sbarco dei migranti con le loro storie di sofferenza e disperazione. I drammi della nostra società sono descritti con competenza e con un tono lieve che non stride con la profondità nascosta, ma la rende meno aspra. Ma com’è nato il personaggio di Mancuso? Il commissario protagonista de “Il morto con la zebiba” compare la prima volta in un racconto della raccolta “Pilipintò”, edita per la Zerounoundici Edizioni. Dopo di che, il commissario Mancuso «si è rifiutato di morire». E ha chiesto una storia tutta sua. Più di una, in verità. Carlo ci racconta divertito che il protagonista dei suoi romanzi esiste davvero e, come se non bastasse, lavora proprio a Palermo. Ci affascina tutti con lo spiritosissimo racconto di come ne apprese l’esistenza e ne ricevette la benedizione. Il vero commissario di polizia Francesco Mancuso, infatti, dopo aver accettato di incontrarlo e aver sfogliato le pagine del romanzo, siglò quella prima pubblicazione con un secco “mi piaccio”. E per fortuna, dal momento che il libro era già in tipografia! Un commissario siciliano, un «bravo sbirro», ricco di umanità e fortemente empatico. Difficile non pensare subito al Montalbano di Camilleri, ma Carlo ha imparato a convivere con questo paragone. «Se pensi a un commissario siciliano, pensi subito a Montalbano. È inevitabile». Il commissario Mancuso, però, non ha avuto difficoltà a costruirsi una strada autonoma nel mondo dei gialli. Siamo già al secondo libro delle sue avventure, che ha un respiro più internazionale del primo. Le vicende si muovono tra la Sicilia e Il Cairo. Sulla spiaggia di Capo Granitola viene infatti trovato il cadavere di un uomo con la zebiba sulla fronte. La zebiba è un piccolo bernoccolo scuro che i musulmani osservanti si procurano a causa del movimento delle cinque preghiere giornaliere, che li porta a battere leggermente la testa sul tappeto. Quell’uomo dunque è un “bravo musulmano”. Il cadavere, però, risulta positivo all’alcol, cosa che non combacia con il profilo di un arabo osservante. L’uomo non è morto accidentalmente. È stato ucciso. Molti dei ragazzi del liceo Garibaldi hanno letto i libri di Barbieri. Dopo un attimo di timidezza, messi subito a loro agio dalla verve dell’autore, non lesinano a porre le loro domande. Innanzitutto sul rapporto Mancuso-Barbieri. L’autore ha dato molto al suo personaggio e dal personaggio ha preso molto, ma questi è come un figlio, che una volta lasciato andare si fa strada nel mondo da sé e appartiene ai lettori. La maggior parte delle domande riguarda la scrittura: la scelta del siciliano, ad esempio, che per Barbieri è una lingua immediata. Il dialetto non impedisce a un lettore non siculo di apprezzare i suoi romanzi: ai termini siciliani meno trasparenti segue spesso una spiegazione o una sorta di “traduzione parafrasata”. Poi le domande virano sul genere scelto, il giallo, di grande tradizione letteraria. Ma Carlo non scrive solo gialli. A Luglio è prevista la pubblicazione di una raccolta di racconti per Dario Flaccovio, e proprio con dei racconti irriverenti e arguti il nostro autore ha esordito. Ma il genere giallo sembra proprio congeniale allo spirito del papà di Mancuso: un osservatore attento ai dettagli, curioso e versatile. «Quando termino di scrivere un giallo, e mi accorgo che tutto fila alla precisione, mi domando: ma come ho fatto?» ci rivela rispondendo all’ultima domanda. Ed è questo forse il segreto di Barbieri: lo stupore, la naturalezza di una scrittura genuina, senza forzature, semplice ma capace di scavare nel profondo del contemporaneo e dei suoi chiaroscuri.