L’8 marzo delle donne
(Carmelo Fucarino)
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In margine all’incontro culturale “Regine e Sante protettrici nella Toponomastica panormita” a cura del Centro di Cultura Siciliana e riguardo alla Porta Carolina, di fronte all’Orto Botanico, declassata a Porta Reale per odio verso la regina. Altra donna ebbe una porta, Porta Felice, in onore di donna Felice Orsini, moglie del viceré Marcantonio Colonna. Vero splendore di Mariano Smiriglio. Si battaglia e si fanno pressioni sulla cattiva coscienza maschilista, chiamando in causa la statistica degli omicidi di genere, detti con bruttissimo neologismo “femminicidi”. Quelli a danno dell’altro genere sono semplici omicidi senza aggravanti. Perciò si vuole, si dice trasversalmente e a gretti fini elettoralistici, relegare le donne in una riserva indiana, ove il solo fatto di essere donna garantisca l’elezione, naturalmente in liste bloccate prefabbricate e senza le “orrende”, “pericolose” preferenze (d’accordo i partiti padronali e naturalmente anche Grillo & C.). Ci sarebbe da chiedere chi sceglierà queste unte, i capi dei partiti maschilistici o altre donne delegate a questa professione. In altri termini anche con i pochi voti di famiglia si può entrare a governare l’Italia, essendo semplicemente prime nella lista chiusa, con il solo “pregio” e capacità di appartenere al genere femminile. Con questi criteri si potrebbe riportare in Parlamento a governarci anche il cavallo di un celebre imperatore, oggi forse meglio il “fedele” cane, il parente più stretto di famiglia.
Nell’incontro sopradetto ho voluto ricordare una donna eccezionale nel bene, ma anche nel male, la terribile vendicatrice Maria Carolina, moglie sedicenne per procura del nostro Ferdinando, quello della Palazzina Cinese e di Ficuzza, passato da IV a zero. Tredicesima figlia dei diciotto della prolifica Maria Teresa, visse due vite esemplari, la prima imbevuta di illuminismo, di mecenatismo culturale ed artistico, la seconda dopo il decolté dell’amata sorella Maria Antonietta quella della spietata regina che, nuova Salomé, chiese la testa dei rivoluzionari, fra cui Pagano e Caracciolo e l’Eleonora Pimentel Fonseca, colpevole di avere scritto una feroce satira («Rediviva Poppea, tribade impura, d’imbecille tiranno empia consorte stringi pur quanto vuoi nostra ritorta l’umanità calpesta e la natura…»). Al Tanucci subentrò lord Acton con la supervisione inglese e l’intrigante donnicciola lady Hemma Hamilton, sua troppo intima. A me ha intricato la prima parte della sua vita, vera regina e governante al posto del distratto e inetto marito, intento a cagliare ricottine alla Favorita. In particolare mi ha sorpreso del suo dispotismo illuminato la fondazione della Colonia di S. Léucio e delle sue seterie, attiva dal 1789 al 1799, e in principal modo il suo Codice-Statuto, antesignano del cattolicesimo sociale alla Thomas Moore o alla Toniolo. Fu la vera parità uomo-donna, senza steccati e protezioni. In essa uomini e donne vissero uguali, con uguali prerogative e pari compensi. Alle donne fu riconosciuto il diritto di studiare, ereditare, possedere proprietà, educare i figli e soprattutto scegliersi liberamente il marito. Naturalmente con la propaganda savoiarda del loro Regno perfetto contro la barbarie borbonica si buttò il bambino assieme all’acqua sporca. Paradigma la ferrovia Napoli-Portici, irrisa come giocattolo regio. Per tutti però valga il giudizio di Alexandre Dumas padre, amico, cronista e finanziatore per gioco di Garibaldi: «Nel 1778, quando cioè Saint-Simon aveva appena dodici anni, e Fourier non ne aveva cinque, il re Ferdinando non solo ideò il falansterio, … ma lo mise ad effetto, dandogli leggi più umanitarie di quelle compilate da’ due capiscuola, e da’ loro due discepoli. Aspetto alla costituzione di San Leucio, quelle di Saint-Simon e di Fourier son timidi saggi di socialismo» (Da Napoli a Roma, Napoli 1863, tradotto dal napoletano Eugenio Torelli Viollier, “il garibaldino che fece il Corriere della Sera”). Intanto un principio etico fondamentale: «I Doveri negativi son quelli, che impongono l’obbligo di astenersi dall’offender alcuno in qualunque maniera. Or in tre maniere si può offendere alcuno. Si può offendere nella persona, nella roba, e nell’onore». Ad essi si affiancano quelli positivi che «impongono di fare a tutti il maggior bene che si possa. Questi sono o generali, o particolari. I generali riflettono sopra tutti i nostri simili». Perciò, «la virtù, e l’eccellenza nell’arte, che si esercita, debbon essere la caratteristica dell’onore, e della singolarità; e questa, qual debba esser tra voi, sarà qui sotto prescritta. Nessun di voi pertanto, sia uomo, sia donna, presuma mai pretendere a contrasegni di distinzione, se non ha esemplarità di costume, ed eccellenza di mestiere». Prima del lodatissimo Olivetti di Ivrea ai lavoratori fu assegnata una casa con acqua corrente e servizi igienici, fu creata un’assistenza malattie e ospedali a carico dello Stato, il campo più attivo e moderno del Regno borbonico. Suscita una certa commozione la lettura dell’articolo III Sul matrimonio, cristiano e moraleggiante, che inizia: «La donna fu concessa da Dio all’uomo per sua ragionevol compagna». Detto del matrimonio, dell’età e della ripartizione del lavoro di entrambi chiarì: «Nella scelta non si mischino punto i Genitori, ma sia libera de’ giovini, da confermarsi», con un preciso e romantico rituale di scambio di bouquet di fiori. In merito «essendo lo spirito, e l’anima di questa Società l’eguaglianza tra gl’Individui, che la compongono, abolisco tra’ medesimi le Doti». Indicato l’uomo come capo naturale di questa unione, la natura «gli proibì nel tempo stesso di opprimere e di maltrattare la sua moglie. Con tuono di maestà in ogni occasione gl’intima l’obbligo di amarla, di difenderla, e di garantirla da’ pericoli, a’ quali la sua debolezza la porterebbe. Il marito deve alla moglie la protezione, la vigilanza, la previdenza, gli alimenti, e le fatiche più penose della vita. La moglie deve al marito la giusta preferenza, la tenera amicizia e la cura sollecita per cimentare da più in più la cara unione». Perciò, «comando ad ogni marito di questa Società di non tiranneggiar mai la sua moglie, né di essere ingiusto, togliendole quella ricompensa che sia dovuta alla di lei virtù: ad ogni moglie, che rendasi cara al suo marito; che nelle cure, e ne’ travagli sia la sua fedele compagna». Sembra il nostro codice civile. L’istruzione elementare fu obbligatoria e gratuita, e quello che più strabilia in tema di parità, il diritto allo studio fu esteso in ogni Comune con «la Scuola normale, in cui s’insegna a’ fanciulli, ed alle fanciulle sin dall’età di anni 6 il leggere, lo scrivere, l’abbaco». Quando in Inghilterra il lavoro minorile era soggetto ad età e orari disumani, qui si stabilì l’ingresso a 15 anni con turni regolari per tutti con otto ore giornaliere e con un salario sufficiente a sostentare le famiglie. La disoccupazione giovale fu combattuta e risolta: «Per non farli andare altrove a cercar la maniera d’impiegarsi, ho (il Re, promulgatore dello Statuto) provveduto questo luogo di macchine, di strumenti e di artisti abili ad insegnar loro le più perfette manifatture». Se tutto questo potrebbe sembrare ovvio nella società italiana del 2014, si rifletta su questo articolo in epoca di maggiorascato maschile: «Abbian i figli porzion eguale nella successione degli ascendenti; né mai resti escluso la femina dalla paterna eredità, ancorché vi sian de’ maschi». Ed educatori riflettete: «Se i Genitori danno la vita, i Maestri danno la maniera di sostenerla. Quegli obblighi dunque, che i figli hanno a’ Genitori, quelli stessi i discepoli hanno a’ Maestri. Ad essi debbono l’amore, e la gratitudine: ad essi l’ubbidienza, ed il rispetto». Solo questo, per ragioni di spazio, ho potuto ricordare di questo Statuto che invito a leggere intero per ricavare qualche riflessione sull’uso improprio, immorale e mistificatorio, che si è fatto della Storia della Nazione.