Romanticismo, ingenuità e ironia: ecco come raccontare la mafia alle nuove generazioni
( Daniela Scimeca )
La mafia uccide solo d’estate, prima pellicola di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) affronta il tema della mafia in modo davvero originale, inaspettato persino platealmente canzonatorio. Non c’è retorica né artificio, il punto di vista è straordinariamente nuovo ed è affidato ad Arturo, un bambino la cui vita, fin dal suo concepimento, si intreccia con le tante stragi mafiose che macchiano di sangue Palermo a partire dalla fine degli anni ’70 e che si consumano di anno in anno. Eppure chi circonda il bambino, incluso i suoi genitori, non sembra curarsi della piaga oscura e adduce le tante morti a cause fittizie e ambigue. Così la mafia è quasi invisibile agli occhi di Arturo che però impara a conviverci inconsapevolmente fin da piccolo perché circondato da atteggiamenti, commenti, telegiornali e una vita quotidiana fatta di piccole delusioni e vittorie. Dentro di lui la via della verità si rivela un percorso arduo e Arturo circondato da omertà, disinteresse, ambiguità diventa anche lui vittima di un grande fraintendimento dove il male e il bene si confondono in una giostra di personaggi pittoreschi e caricaturali.
Arturo, sempre più perplesso e confuso, non ha risposte né consigli dai suoi genitori, si rivolge così ad Andreotti, leader politico del momento, che diventa il suo eroe, punto di riferimento e persino suggeritore segreto nel suo tormentato amore per Flora. In una quotidianità scialba e apatica Arturo riesce a coltivare piccole soddisfazioni come l’amicizia con l’avv. Chinnici, le iris alla ricotta ottime per deliziare la sua amata Flora, un premio di giornalismo e persino un’intervista con il prefetto Dalla Chiesa. Ma i momenti più belli della sua vita sembrano essere funestati dalle stragi che continuano a intersecarsi alla sua vita come se avessero comune radice. In mezzo al caleidoscopio di eventi e personaggi che gli girano intorno Arturo si sente sempre più disorientato e persino Andreotti, il suo mito, non si rivelerà una fonte attendibile. Gli rimane solo l’amore per Flora, puro e ingenuo, che coltiva con perseveranza, anche quando lei partirà e l’amicizia sincera del vicino di casa giornalista che lo chiama affettuosamente collega. Intanto gli anni passano, le stragi si susseguono e nuovi protagonisti si affacciano sulla scena della lotta mafiosa. Arturo cresce e sembra destinato a diventare uno dei tanti palermitani muti, sordi e ciechi che consumano un’esistenza insignificante e priva di qualunque slancio vitale, progetto o sogno. Il ritorno di Flora però lo risveglia, gli dona iniziativa e vigore e, seppur impacciato, Arturo riesce a dichiarare il suo amore e a liberarsi dal pesante involucro che lo ha tenuto quasi in letargo. A poco a poco nella mente di Arturo tutto acquista senso e la sua coscienza, per troppo tempo narcotizzata, finalmente lo rende diverso, libero. E quando si consumeranno le stragi di Falcone e Borsellino, lui accorrerà disperato assieme a tutti i palermitani sani a dare l’ultimo saluto in chiesa a quelli che sono ritenuti già degli eroi. Li, proprio mentre i cordoni umani della polizia si rompono lasciando passare la folla, anche Flora capirà finalmente, anche il suo cuore e la sua coscienza usciranno dal bozzolo con nuove ali. Arturo e Flora ormai genitori decidono di portare il proprio figlio in giro per Palermo. Le lapidi dei tanti morti saranno per lui un monito, un ricordo da tenere a mente. La storia, apparentemente semplice, è tessuta ad arte, dipinge una società legata a riti, credenze e piccoli privilegi sociali da difendere. Gli arditi parallelismi e il rovescio di medaglia sempre presente, riescono a strappare non pochi sorrisi amari frutto di un’ironia d’ascendenza pirandelliana. Molto indovinati gli inserti di filmati originali usati non per la solita retorica né per le solite lacrime artefatte ma per dare forza e pregnanza alla parte di verità che si vuol raccontare. Molti i personaggi e le comparse, buffi, simpatici o impacciati ma molto verosimili. Pirandelliano è anche il finale aperto rivolto proprio al pubblico: un monito ai genitori e ai figli affinché insegnino sempre a riconoscere il male anche sotto una maschera.