L’odore degli altri parte seconda (ovvero il carrozzone)
( Raimondo Augello)
Talvolta certe intuizioni stentano a tener dietro all’incalzare degli sviluppi della cronaca. Ci giunge notizia proprio in queste ore della bufera politica, e non solo, provocata dall’uscita lo scorso 10 Gennaio nelle sale cinematografiche dell’ultimo film del regista livornese Paolo Virzì,”Il capitale umano”. Ma andiamo ai fatti. Virzì, usufruendo di un finanziamento del Ministero dei Beni Culturali, opera una scelta insolita per la cinematografia italiana e mondiale e decide di ambientare il suo film in Brianza raccontando, attraverso la vicenda di due famiglie, la realtà di quei luoghi vista dalla sua ottica. In realtà il regista si è limitato ad operare una trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo (Mondadori, 2005) dello scrittore americano Stephen Amidon in cui egli, ambientando la vicenda nell’ “America profonda” del Connecticut, racconta attraverso la metafora letteraria la crisi di valori di un certo tipo società americana.E’ bastata la scelta di individuare la Brianza per l’ambientazione del film per scatenare, lo ripetiamo, una bufera inimmaginabile, relegata ai margini dai mass-media, ma di cui sulla rete si può trovare amplissima testimonianza. A parte l’uragano di critiche e insulti gratuiti rivolti al regista toscano su twitter e su vari siti (di cui naturalmente non facciamo neppure menzione), ferma e diffusa è stata la condanna delle autorità politiche locali.
Come ci racconta Il Sole 24 Ore, l’assessore al Turismo e Sport della Provincia di Monza e Brianza, Andrea Monti, è andato su tutte le furie e ha parlato di “uno schiaffo alla Brianza”, arrivando a chiedere la restituzione al Ministero dei Beni Culturali del finanziamento percepito da Virzì. Innescato il turbine delle polemiche, il regista non si è sottratto alla disputa, affermando nel corso di una conferenza stampa di avere scelto di ambientare in Brianza il romanzo di Amidon per il fatto che essa gli era apparsa come «paesaggio gelido, ostile e minaccioso», segnato da «grumi di villette pretenziose» e di «ville sontuose dai cancelli invalicalibili». Ma non basta. Ben presto la polemica si è spostata sulle rive del Lago di Como. Le parole del regista («Como esprime il degrado della cultura con quel suo unico teatro, il Politeama, chiuso e in rovina») non sono andate giù all’assessore comunale alla Cultura, Luigi Cavadini. E la precisazione di Virzì non si è fatta attendere. «So che a Como si sono offesi per quello che ho detto a proposito del teatro Politeama abbandonato e del fatto che esprimesse il declino della cultura – ha replicato – ma io nel film ho lavorato a Como come se avessi lavorato nel Connecticut, tenendo fede al tema del libro di Amidon”. Ma andiamo a vedere cosa ne pensa del film appunto lo scrittore americano. Egli scrive:«È un film commovente. È stata una delle gioie più grandi della mia vita. Ho amato ogni sequenza. Paolo è riuscito a essere fedele al libro, trasformandolo nello stesso tempo in un’opera sua. Mi hanno emozionato le performance degli attori», e Amidon cita Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi, la fragile Carrie del libro) per omaggiare tutto il cast, composto da Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola, trasfigurazione del protagonista perdente, Drew Hagel), Fabrizio Gifuni (Giovanni Bernaschi, versione nostrana del finanziere Quint Manning), Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Bebo Storti, solo per citarne alcuni. “Sono riusciti a veicolare una storia ambientata in America in un racconto italiano senza snaturarla », continua Amidon, alludendo alla sceneggiatura, scritta dallo stesso Virzì, assieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo. Per la verità, qualche voce di dissenso dal coro di critiche piovute su Paolo Virzì è arrivata anche da qualche giornale lombardo. Il giornale indipendente e di denuncia “Nuova Brianza”, per esempio, titolando “Finanza e squali in Brianza”, scrive che “non a caso Paolo Virzì ha scelto la Brianza come ambientazione per il suo nuovo capolavoro”. E lo stesso Il Sole 24 Ore, attraverso un articolo della giornalista Cristina Battocletti, si è così espresso: “Prendi la profonda provincia americana, della competizione sfrenata, inculcata quando l’anima è ancora imberbe, dei divari sociali vertiginosi, del dio dollaro che nobilita e inginocchia, e sbattila nella Brianza ispida dell’imprenditûr coi danè. Una virata sociogeografica che ha travolto positivamente Stephen Amidon, fresco di visione di “Il capitale umano” . E andando ai giornali nazionali, la Repubblica titola: “La scommessa sulla rovina di un Paese: Paolo Virzì ha vinto”. Ci fermiamo qui, ma potremmo andare avanti. E lo facciamo non perché il tema non sia interessante, ma per il fatto che l’argomento di questo articolo non è il film di Virzì, ma un altro. E’ notorio che la quasi totalità di quella parte del cinema italiano e internazionale che ha voluto ambientare i propri film in Italia ha sempre scelto il Meridione e in particolare la Sicilia per raccontare qualcosa. Sarà stato per la storia millenaria e la stratificazione delle più importanti civiltà di cui quei luoghi parlano al visitatore o forse per la complessa realtà sul piano antropologico e culturale che ne è derivata (d’altro canto, lo sappiamo, l’elaborazione del pensiero filosofico-matematico, così poco incline alle rozze semplificazioni, ebbe la sua culla proprio nella Magna Grecia) o sarà stato perché con il sole la qualità delle riprese risulta migliore. E invece non è così. Nell’immenso panorama della cinematografia che ha scelto il Sud e la Sicilia come sfondo, se si escludono pochissimi casi (penso, ad esempio a Rossellini o a Marco Tullio Giordana con il suo indimenticabile ritratto di Peppino Impastato ne “I cento passi”), nessuno ha mai scelto di raccontare quei luoghi nella loro realtà più profonda: l’unico tema prescelto, anche da parecchi film francamente scadenti sul piano artistico, oltre che qualche capolavoro, è stato quello della Mafia, concorrendo a determinare la nascita di uno stereotipo semplificato (così antitetico rispetto al modello problematico, lo ripeto, del pensiero di origine magno-greca). Chiaramente uno stereotipo, lo ribadisco, non meno di quello sotteso al film di Paolo Virzì. Perché allora è potuto accadere ciò? Intendo dire, perché al Sud non ci si è mai ribellati ad uno dei filoni privilegiati a cui ha attinto la cinematografia mondiale innumerevoli volte, mentre l’unico film ambientato in Brianza sta scatenando quel caos di cui abbiamo raccontato la punta dell’iceberg? Forse perché ciò è la più lampante e immediata (nei tempi) dimostrazione della veridicità di quanto ho scritto nella prima parte dell’articolo “L’odore degli altri”, ma questa giustificazione da sé appare insufficiente. Io ho un’altra spiegazione (ma quanto è problematico questo pensiero magno-greco, diamine!). Forse il peso esercitato nell’arco di 150 anni da quella che antropologi e sociologi (ovviamente sui libri, non in televisione, si intende) chiamano “educazione alla minorità” riferendosi ai Meridionali è la vera ragione. Forse l’abitudine inculcata nell’homo meridionalis da un pensiero subdolamente sotteso nelle nostre scuole, dall’asilo all’università, e diffuso in mille forme nella nostra società, lo ha portato a credere che il suo sia un modello culturale “perdente” (è stato così anche per le donne sino alla rivoluzione del ’68, non è vero? Quante analogie!)inducendolo ad accettare tutto ciò evitando levate di scudi in stile brianzolo. E d’altro canto, è inevitabile che un popolo privato della memoria, della conoscenza della propria storia pre-unitaria, finisca per smarrire i propri riferimenti sino a perdere coscienza di sé e della propria dignità. Ricordo di avere letto la frase di uno sociologo che mi ha colpito molto, il quale riferendosi proprio a questa condizione anomala che il Meridionale vive, scrive che “un popolo che non ha rispetto della propria storia non ha rispetto di sé e neppure della propria terra”. Ma no? La cosa mi fa venire in mente la Terra dei fuochi, l’ILVA di Taranto, Gela, Augusta, Priolo, Milazzo, la Basilicata, cui presto dedicheremo un lavoro, e tanti altri posti ancora dove si è permesso per anni con le complicità locali l’inimmaginabile, altro che film! (“Ma insomma”, si chiederà qualcuno, “ma quanto è complicato ‘sto pensiero magno-greco, è proprio noioso, bisogna essere più pratici, suvvia!”). Se la mia analisi non fosse corretta non si capirebbe, per esempio, come non dico tanti Milanesi, ma addirittura tanti Meridionali considerino naturale che da anni nel centro di Milano stazioni un carrozzone che offre con amplissima scelta (ma con pessima qualità, a giudicare dall’aspetto approssimativo e con approssimativa conoscenza della giusta denominazione dei manicaretti e degli ingredienti che li compongono) prodotti gastronomici tipici siciliani sui cui troneggia una scritta a caratteri cubitali che denomina il carrozzone stesso: IL PADRINO. Ed è una meraviglia osservare, come a me è capitato, anche i tanti siciliani presenti nella metropoli lombarda correre felici ad acquistare per sé o per i propri figli una di quelle leccornie, felici forse di ritrovare un surrogato seppur scadente dei sapori della propria terra, o forse orgogliosi di vedere proprio sotto quella scritta oltraggiosa l’immagine disegnata con ampio tratto della propria isola. Addirittura durante le ultime festività natalizie il carrozzone si è stabilmente collocato alla destra dell’ingresso del Duomo. Io credo che il sindaco di Milano (nei confronti del quale, detto per inciso, nutro sincera e profonda stima) avrebbe forse fatto bene a tutelare non dico l’immagine dei Siciliani, a cui come sto cercando di dimostrare forse non tengono, come è evidente, neanche loro, ma quanto meno le ragioni dell’arte, dell’estetica, e i diritti di uno splendido monumento come il Duomo di Milano. E adesso come la mettiamo con i Brianzoli? Se qualcosa del genere fosse stato fatto a loro cosa avrebbero detto? Ma per loro fortuna i Brianzoli non sono stati “educati alla minorità”, e dunque insorgono. E nel caso degli stereotipi sulla Sicilia, si badi bene, non si tratterebbe di reagire istericamente (L’odore degli altri!) e campanilisticamente alla metafora della nostra società che un regista offre attraverso la rappresentazione di uno sfondo grigio e fosco (in tutti i sensi), ma di reagire contro chi non ha alcun rispetto delle innumerevoli vittime della mafia, magistrati, forze dell’ordine, onesti e semplici cittadini, imprenditori, molte donne anche, sino a Presidenti di Regione, come Pier Santi Mattarella, tutti siciliani naturalmente, morti in una vera e propria guerra, per essersi opposti ciascuno da solo e con i propri mezzi alla violenza mafiosa. Insomma, che un siciliano accetti che il carrozzone associ al padrino l’immagine della Sicilia è un po’ come se un Ebreo accettasse che si facesse ironia sulle vittime dello sterminio, no? Forse il carrozzone avrebbe fatto meglio ad associare l’immagine della Sicilia a quella, che ne so? di un Falcone, per far contento il grande pubblico, di un Ninni Cassarà, o più modestamente (spero sia chiara l’ironia, immagine cara a Socrate: e che cavolo, ancora ‘sti Greci? Ma andiamo, su!) a l’immagine di un ragazzotto di provincia di un piccolo paese del palermitano, che risponde al nome di Peppino Impastato. Forse il carrozzone dovrebbe aggiornarsi. E dico che dovrebbe aggiornarsi perché a chi frequenta la rete è noto come in tutto il Meridione ormai da anni stiano moltiplicandosi in misura esponenziale le associazioni antiracket, gli imprenditori, i gruppi civici spontanei, i sindaci-coraggio (parecchi in Calabria, a proposito, donne- sindaco soprattutto, che da sole e sempre più si sono opposte alla ‘Ndrangheta in molti casi le conseguenze immaginabili, ma di cui i mezzi di informazione si guardano bene dal parlare senza che nessuno batta ciglio: ecco cosa vuol dire “educazione alla minorità”!), che hanno deciso di dire NO alla Mafia, anche se lo Stato non li degna di uno sguardo. E SI BADI BENE: quelle persone di cui stiamo parlando in molti casi sono le stesse che come un fiume in piena ogni giorno di più (no, inutile aspettare che ce informi la televisione!, su) si battono attraverso ormai un numero incalcolabile di libri, opere teatrali, testi musicali di grande pregio artistico (sconosciuti, ovviamente a chi ascolta le canzonette e non solo) per recuperare la memoria storica di ciò che davvero è stato il Meridione pre-unitario , per raccontare, denunciare e per colmare l’esercizio di cancellazione coatta di ogni ricordo di sé a cui l’”educazione alla minorità” ha condannato l’homo Meridionalis. Ma “il carrozzone” non bada a queste sottigliezze, e come cantava già qualcuno anni fa, “va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti, i suoi re” (e anche con i suoi padrini, aggiungo io!), non c’è niente da fare! Io ho concluso. Sperando che qualcuno non si sia perso nel frattempo per strada, ho da aggiungere un’ultima cosa. Chiunque trovasse insufficiente o difettosa questa mia analisi è caldamente invitato ad intervenire su questo blog e sugli altri giornali (on-line e cartacei) su cui questo mio articolo sarà a giorni pubblicato. A patto però che dimostri con altrettanta lucidità e capacità di argomentazioni le ragioni del proprio dissenso, dimostrando di avere assimilato le modalità della logica magno-greca.