Portare David Foster Wallace a teatro? Un Happy ending
(Lavinia Scolari)
Happy ending ovvero Respice finem (di Alessandra Pizzullo)
in scena: Daria Castellini, Alessandra Pizzullo e Valerio Strati
regia: Sandro Dieli
costumi e scena: Dora Argento
musiche a cura di Antonio Guida
progetto grafico: Alessandra Cucciardi
foto: Angelo Macaluso
tecnici: Federico Immesi e Giuseppe Benvegna
addetta stampa: Claudia Brunetto
David Foster Wallace ha scritto: «La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te» (Infinite Jest). E intorno a verità logoranti e grottesche, radicate nella tragicità contemporanea del quotidiano, è imbastito lo spettacolo scritto da Alessandra Pizzullo e diretto da Sandro Dieli, in scena il 7 e il 15 dicembre 2013 (repliche previste il 21 e il 22 dicembre), presso il teatro alla Guilla di Palermo. La performance è ispirata alle tematiche e ai personaggi del discusso romanziere statunitense, suicida nel 2008 all’età di 46 anni. Il titolo è un Giano bifronte: Happy ending ovvero Respice finem. Se l’inglese è trasparente e inneggia a un lieto fine, in realtà paradossale e impossibile, il latino ha tutta la potenza dello sguardo che si volge (respice = gìrati a guardare) in direzione di una meta sulla quale modellarsi, che dia consapevolezza e stabilisca un limite del vissuto e del vivente. Il finis in latino è questo: il confine, ciò che si traccia per separare il fuori dal dentro, il sacro dal profano, “ciò che è” da “ciò che non è o non è più”. Ma lo spettacolo rivela la vacuità del tentativo di vivere soffocando la verità. L’idea di base riecheggia così in uno snervante refrain che sembra riassumere il senso della pièce e che i personaggi in scena ripetono concitati, in una climax ascendente: “incontro al nostro destino”.
L’azione teatrale è intensa, costruita nello spazio e in prospettiva: il palco è disposto quasi in perpendicolare rispetto al pubblico, che assiste all’entrata in scena dei personaggi come di sbieco, di fronte a una quarta parete pronta a sgretolarsi da un momento all’altro e ad esplodere sotto al peso della tensione. La storia si muove anch’essa avanti e indietro nel tempo, tra ricordi di un passato troppo presente e le relazioni disarmanti che legano i tre personaggi sotto l’egida delle ossessioni: una madre, Avril (Alessandra Pizzullo), ex professoressa d’inglese ossessionata dal lifting, dalla perfezione e dall’idea di salvare le apparenze; un figlio, Mario (Valerio Strati) ossessionato dal sesso, apparentemente menefreghista e gretto, ma che pare introiettare i suoi drammi familiari attaccandosi a un braccio finto come a un feticcio irrinunciabile, prolungamento del suo io conflittuale; e infine una figlia, Joelle (Daria Castellini), ossessionata dal padre morto, depressa e autolesionista, aggrappata in modo desolante eppure tenero a un passato ormai perduto. La storia gioca proprio sullo sforzo tragicomico della madre di salvare le apparenze ormai distrutte e nascondere la polvere delle loro esistenze sotto a un velo di ipocrisie e finzioni, pronta a soffocare gli orrori di un quotidiano di violenze e disagi. Il nervoso movimento con cui Avril tira giù le maniche di Joelle per nascondere le sue profonde cicatrici, che denunciano i tentativi di suicidio, fa di contro al gesto sprezzante e contrario di Mario, che gliele rimbocca perché siano esposte, visibili con tutto il loro orrore. Una lotta degradante tra la rancorosa denuncia del figlio e la finzione sterile della madre, destinata a implodere nella più totale paralisi. Avril, infatti, passerà dalla prigione di una maschera di silicone a quella di un corpo esanime, quasi imbalsamato in un ictus davanti al quale i figli stessi sono impreparati e impotenti. E al centro lei, Joelle, che tiene dentro di sé le sue angosce e costruisce un mondo di spettri e rifiuto: rifiuto della morte, rifiuto della terapia, rifiuto del vivere. L’incapacità di dare un nome al vero e di affrontare la vita emerge dal modo in cui madre e figlio si riferiscono al marito defunto di Avril, inserviente ma aspirante scrittore: “lui in persona”, questo è il modo con cui si riferiscono alla memoria del padre, un ipse dixit profetico. Lo spettro dell’uomo aleggia nel monologhi di Joelle, l’unica a parlargli a tu per tu attraverso il portale iper-realistico di un water, incapace di lasciarlo andare, immobilizzata in un ricordo che intorno a lei gli altri cercano di annichilire, impauriti da uno spettro che rappresenta il vissuto e il fallimento, i sogni spezzati e agonizzanti, il volto della realtà. Scriveva lo stesso Wallace: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi» (Il Re pallido). L’ultima lettera del padre è un enigma insoluto: due pesci che nuotano nell’oceano e che non sanno che cosa l’oceano sia. Inconsapevoli della sostanza dell’esistenza, del mondo che li circonda e li fagociterà.Daria Castellini crea un misurato mélange di dolcezza e dramma che dà una stupefacente sensazione di naturalezza. Colpisce la personalità scenica di Alessandra Pizzullo, intensa e poliedrica, capace di scivolare dalla comicità al tragico armonizzando i registri in modo efficace. Valerio Strati dimostra una capacità di impostazione vocale non comune, modulando corpo e voce e conferendo intenzione e significato all’interazione con gli oggetti. La regia di Sandro Dieli è una firma tangibile nell’esito artistico. Si avverte sulla scena il risultato di un profondo lavoro di training (degli attori tra di loro e con gli oggetti scenici). La confidenza con gli spazi e la padronanza degli stessi trasmette inoltre la sensazione di un loro prolungamento, li espande dando respiro alla scena e permette il loro coniugarsi all’uso duttile e pastoso delle voci e dei corpi. A contribuire all’atmosfera le musiche ad hoc a cura di Antonio Guida e i costumi e la scena (particolarmente incisiva) di Dora Argento. Un’occasione ghiotta e lodevole: alla fine dell’azione teatrale gli attori si prestano a una conversazione col pubblico, che può esternare domande e curiosità “a caldo”. È il teatro che parla di sé, ma non si trincera dentro di sé. Happy ending non lascia indifferenti: non si va via sazi, ma affamati