‘A rascatura, a partire da Melisso e S. Agostino
(Carmelo Fucarino)
Scriveva Aristotele che «i Pitagorici postulavano l’esistenza dello spazio vuoto, non però quale concetto assoluto, come Leucippo e Democrito, bensì in senso relativo come Empedocle» (Arist., phys. 213 b). Ma sul tema di spazio vuoto o pieno ci aiuta per tutti Melisso nel suo trattato Sulla natura o sull’ente. Partiva dall’unicità dell’essere, «così dunque è eterno e indefinito ed uno ed uguale a sé tutto. E né potrebbe perire né divenire maggiore né si muterebbe nel suo ordinamento, né ha dolore né afflizione. Se in effetti dovesse provare una di queste cose, non più sarebbe uno. Se in effetti si altera, è necessario che l’ente non sia uguale a sé, ma che perisca ciò che era in precedenza e provenga ciò che non è.
Se quindi di un solo capello in migliaia e migliaia d’anni venisse ad essere alterato, perirà tutto in tutto il corso del tempo». E concludeva «Né di vuoto v’è niente; in effetti il vuoto è niente; non potrebbe dunque essere, quanto appunto è nulla; né si muove; non ha infatti da ritrarsi da nessuna parte, ma è pieno. Se in effetti vi fosse stato del vuoto, avrebbe potuto ritrarsi nel vuoto; ma non essendovi vuoto, non ha dove ritrarsi. E denso e rado non saprebbe essere. Il rado, infatti, non è attuabile che sia pieno ugualmente al denso, ma già di per sé, il rado appunto, viene ad essere più vuoto del denso. Distinzione, questa, che occorre fare, del pieno e del non pieno: se dunque fa luogo ad una cosa e l’accoglie, non è pieno; se né fa luogo né accoglie, è pieno. Necessariamente quindi è pieno, se non v’è vuoto. Se quindi è pieno, non si muove (fr. 7, 1-2, trad. A. Lami). Tralascio le interpretazioni di Parmenide, Empedocle e degli atomisti. E questo quello che si poteva dire dello spazio, quando si discettava sull’arché (cf. Carmelo Fucarino, Spazio vuoto o pieno nella cultura classica, in AA.VV., Spazio pieno o spazio vuoto?, ed. Aquarius, Palermo,1995, pp. 5-21). Ma anche sul tempo uno per tutti S. Agostino, «Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere». Tutto questo e tant’altro è stato ripreso e ridetto nelle ossessioni e nelle surreali frenesie di due semplici attori di cabaret, Sergio Vespertino, filosofo presocratico da spalla che dava lo spunto alla battuta icastica e fulminante di Ernesto Maria Ponte, popolano di oggi, due stralunati che in una notte interminabile in corsia filosofeggiano o sofisteggiano sulle complicanze della vita, sulle somme elucubrazioni esistenziali tra esistenza e non-esistenza, fantasmi che vivono e non sanno di non vivere, sorretti dal testo assemblato assieme a Salvo Rinaudo. È la prova che in una scena immobile di due lettini da ospedale posti in linea orizzontale si può discettare per circa due ore del più e del meno, addirittura nella pregnante lingua madre, il dialetto siciliano. E si può recitare per tutto il tempo sdraiato su un lettino, cosa ancor più ardua, anche se l’ultima traviata riusciva a cantare per lo più sdraiata a terra. Tenere viva l’attenzione in un tempo unico e senza stacchi musicali, pop o siculo folk, come avviene spesso in un cabaret, inchiodati in una scenografia che era ritmata solo dalla presenza o assenza di luce, era impresa assai ardua. Eppure i due eroi di ospedale sono riusciti ad affrontare i massimi sistemi dell’essere e del divenire, con l’ironia tipica siciliana, con la profonda vis popolare che tutto irride e sa anche farlo di se stessi. Postilla: per i detrattori del dialetto e per chi ne celebra il de profundis, per chi ritiene che ormai in Italia si parla e comprende solo il cosiddetto italiano, il linguaggio pregnante e intraducibile dei due comici è ancora il dialetto. Non so dirvi di dove, se di provincia o di un quartiere specifico di Palermo. Certo è che tutti i presenti siciliani, sicuramente di luoghi e culture come di eloquio diverso, tutti le abbiamo compreso e ci siamo sbellicati dal ridere per le battute folgoranti. Così hanno goduto i soci del Lions Club Palermo dei Vespri, amici e simpatizzanti, senza mancare al loro service di beneficenza.