A proposito di siciliano
(Carmelo Fucarino)
Anche allora i primi arrivati parlavano siculo, sicano, elimo, i primi colonizzatori cartaginese e siceliota
Mi scuso per questa forma di intervento, che ritengo a me ostico ed estraneo nel metodo, ma avrei potuto dire assai poco con una semplice nota all’intervista concessa da Pippo Pappalardo a Gabriella Maggio. Ho già avuto modo di affrontare la questione del siciliano in due occasioni e in due diverse strutture culturali che sono accomunate dall’interesse e soprattutto dal sostanziale sostegno al suo studio, alla sua pratica e divulgazione. Una mi è stata offerta dalla “Società Siciliana per l’Amicizia tra i popoli”, diretta con completa dedizione da Ninni Casamento, con una serata dedicata a “La lingua siciliana e gli apporti della lingua greca” (10 maggio 2012), seconda conferenza tematica delle sei del 9° Corso di lingua e letteratura siciliana, «a rischio di estinzione per l’assalto della globalizzazione e dei localismi», come spiega il coordinatore Fonso Genchi. In margine e su sua proposta, è seguita una breve conversazione-intervista con il prof. Corrado Mirto su TVM (ancora fruibile in rete su TVM, programma “17 marzo 1861” del maggio 2012).
Anche questa emittente non fa solo platoniche professioni di lingua siciliana, ma pratica materialmente la lingua attraverso un notiziario interamente in siciliano. Quale siciliano? La stessa domanda sono obbligato a fare per la lingua nazionale: Quale italiano?
Dopo questa premessa, a suo conforto, devo complimentarmi con Pippo Pappalardo per la dichiarata professione di poeta dialettale e rammaricarmi di aver saputo dopo della presentazione del suo Di mia a tia (edizione ILA Palma), dato anche il prestigioso gruppo di partecipanti all’evento, il tecnico di dialettologia prof. Giovanni Ruffino e l’amico Gianni Nanfa offertosi a leggere con la sua finezza di grecista e con l’affabulazione di siciliano di spettacolo. Strana, dato il tema, la promozione da parte della Società Dante Alighieri e di una esperta italianista come Domenica Perrone. Concordo con Pappalardo sulle difficoltà che incontra oggi la sopravvivenza del siciliano, ma vorrei modestamente rilevare l’ostilità che ha subito per secoli, giustificata da ragioni di esclusivo ordine politico. Era comprensibile che i Savoia, parlanti francese, il padre della patria Vittorio Emanuele parlante anche un rozzo e volgare piemontese con la sua fanciullina, la bela Rosin, che i loro ministri fossero convinti che l’unificazione del loro Regno, nato dalla brutale estensione delle loro leggi e dei loro Carabinieri, dovesse avvenire anche linguisticamente attraverso una massificazione imposta dello strumento di cultura, trasformato in mezzo di comunicazione. Come se si potesse imporre per legge una lingua d’uso quotidiano, senza possedere il dovuto prestigio, come avvenne per la lingua, impropriamente ed erroneamente “latina”, ma romana attraverso l’espansione militare ma soprattutto economica. Il lacrimoso Cuore fu lo strumento di formazione sentimentale del buon suddito al quale si insegnarono storielle edificanti nel suo linguaggio preconfezionato, pietosi eroismi che ci furono imposti dalle maestre di scuola elementare. L’ostracismo all’uso del dialetto in molte famiglie giunse a renderlo peggiore della scurrilità o delle dita nel naso. Si capisce perciò perché questa scelta di un “ipotetico”, mai esistito italiano non fu né preceduta né seguita da un dibattito. Ne fu esclusa categoricamente la possibilità per un popolo suddito, creato artatamente da un manicheo plebiscito. A scuola si continuò ad insegnare una lingua “altra”, come avvenne per il tedesco artefatto di Lutero, ma senza il prestigio religioso della Bibbia. La cosiddetta cultura dell’epoca fece il resto. Non si accese neppure la semplice e naturale, secolare questione della lingua “letteraria”, che era esplosa a scadenze storiche e sarebbe dovuta essere ovvia in un’Italia così artificiosamente e militarmente unificata. Poca cosa ed esclusivamente personale la questione manzoniana della lingua, chiusa con la equivoca e inattuata “risciacquatura in acqua d’Arno” da lui, conte parlante francese e nipote di Beccaria. Che in definitiva era la scelta di assumere a lingua nazionale un dialetto, neppure regionale, ma cittadino (il fiorentino). Era ancora da venire la distinzione di Saussure fra langue e parole. La questione secolare, impostata proprio alle origini del “volgare”, quella lingua del popolo minuto, si risolse con l’imposizione di una inesistente ed artificiosa, convenzionale lingua italiana di Stato. Nel 1303-05, il De vulgari eloquentia, posta la questione a monte della Comedia in volgare fiorentino, aveva individuato i volgari prestigiosi e nobile fra tutti aveva indicato il siciliano: Et primo de siciliano examinemus ingenium: nam videtur sicilianum vulgare sibi famam pre aliis asciscere eo quod quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur, et eo quod perplures doctores indigenas invenimus graviter cecinisse (XII, 2). Dalle glorie decantate di Federico II, il silenzio, tra tanti volgari che si sono variamente imposti nei secoli nella cosiddetta Italia, esistente solo come figura letteraria, per non citare la celebre “espressione geografica”. Tuttavia nessuno potrà mai disconoscere che quella lingua siciliana si continuò a parlare nei secoli, pur con tutte le variazioni gergali e locali che si voglia. Estrema beffa la lingua dell’antologia della Scuola poetica siciliana fu tradotta in dialetto fiorentino con impossibili rime forzate. Io ritengo modestamente che di “lingua” si può e deve parlare, quando nell’ambito di un codice di comunicazione vi sia stata una lunghissima consuetudine e che essa sia stata diffusa in una vasta comunità di parlanti. Certo il catanese, il marsalese, il palermitano differiscono, perché questa è la caratteristica della parole, quella lingua viva e fluida, non codificata da una grammatica normativa. La lingua è un organismo vivente con cellule che nascono e muoiono e diventa lingua morta nel momento in cui essa si è formalizzata. La stortura nasce dal fatto che abbiamo sempre parlato delle lingue in termini normativi e prescrittivi. Mi fa rabbrividire la pretesa traduzione perfetta di Dos Passos o di Fitzgerald dopo tanti decenni di trasformazioni dell’americano. Così è avvenuto per il latino ciceroniano o il greco attico e ateniese, normalizzati nelle scuole. Le differenze del latino letterario di Cicerone erano sostanziali in quello di Tacito o del tunisino Apuleio, abissali nella parlata, il sermo plebeius o familiaris, documentati dallo stesso Cicerone. Così le diverse forme linguistiche letterarie greche, standardizzate per generi letterari, si relegavano a semplici dialetti, mentre erano vere e proprie lingue di gruppi etnici diversi. Naturalmente sia per il latino sia per il greco la norma era espressa da prodotti letterari artistici compiuti, visti nell’eccellenza sincronica e senza consapevolezza del loro divenire diacronico. Così pure Manzoni fu per anni la lingua italiana di riferimento. Eppure anche la lingua di Moravia, di Pirandello, di Camilleri sono già letterarie e perciò morte, come il latino e il greco e Manzoni. Questo il nodo insolubile tra lingua letteraria normativa codificata (di recente mi sono imbattuto nell’uso di virgolette o lineette per i dialoghi, un vespaio risolto autonomamente e imposto agli autori dalle case editrici) e la lingua d’uso quotidiano, la diretta comunicazione, il codice quotidiano di un gruppo ristretto di parlanti. La comunicazione può certo avvenire con il cosiddetto italiano, del quale non si insegna a scuola la lingua parlata, la fonetica (glossa per i Greci e oggi “lingua” dall’organo fonatorio fisico), considerandolo pur sempre forma letteraria musealizzata e non lingua viva parlata. Ciò comunemente avviene in tutte le regioni solo con la parlata locale come strumento di relazione fonetica. Sa di cosa parlo anche un milanese che si sia imbattuto in un bergamasco o di un torinese che ascolti un provinciale di Cuneo. Sostanziali e forti sono i limiti della reciproca comprensione. Eppure il siciliano è più vicino, secondo me, alla lingua italiana. Comunque l’altro giorno a titolo di curiosità e per campione ho ascoltato i discorsi di tutti coloro che salivano con me per via Notarbartolo. Quasi tutti parlavano in dialetto, dico siciliano, perché tutti di località diverse. In conclusione benvenuta la poesia dialettale. Come pure l’esplosione della questione in un dibattito che ripropone i termini in modo eclatante, dati la fama e il prestigio dei personaggi, il dialogo tra Andrea Camilleri, il romanziere di tante personali invenzioni vernacolari, e Tullio de Mauro, il grande linguista, siciliano di adozione, autore della mappa storica (Storia linguistica dell’Italia unita, Bari 1963), riportato nell’avvincente La lingua batte dove il dente duole (Laterza, Bari 2013), forse direi “dove il dente vuole”. Lo sto appena leggendo e vi tornerò presto. Voglio chiudere invece con un’opera eccezionale in mio possesso che documenta senza tema di obiezione i termini della questione. È stata pubblicata nel 1877 dal prestigioso editore G.B. Paravia di Torino, l’autore è Antonino Traina: «Vocabolarietto delle voci siciliane dissimili dalle italiane con saggio di altre differenze ortoepiche e grammaticali in aiuto all’unità della lingua e contro gli errori provenienti dal dialetto. Per le Scuole Elementari, Tecniche e Ginnasiali ed eziandio per le Famiglie, per le Officine, per gli Ufficii e pe’ forestieri che abbiano a intendere il dialetto siciliano». Nella prefazione era specificata la ragione del libro che si proponeva alle scuole siciliane: «col quale intendo additar al siciliano la differenza che è della lingua dal dialetto, perché egli stia in sull’avviso degli errori in cui di leggieri può sdrucciolare» (p. 8). Le differenze indicate erano di pronunzia, di forme grammaticali e di vocaboli. Traina faceva riferimento al suo più ampio Nuovo Vocabolario Siciliano-Italiano, edito da Giuseppe Pedone Lauriel a Palermo nel 1868, che Google book ha voluto regalare al mondo in PDF. Anche in questo vocabolario, «essendo noi nella via di compiere quella unità della nostra Italia», «ben è ragione che ci adoperiamo ad afforzarne il sentimento nazionale» con la conoscenza della lingua, «perché bisogna parlar tutti la stessa lingua» (p. V).
La mia intervista segue a cinque miei articoli pubblicati sui nn. 37, 39, 40 e 42 del Vesprino. La lettura di quegli articoli aiuta a capire le problematiche e le difficoltà che si presen-
tano a chi scrive in dialetto. Per quanto attiene alla vexata quaestio se il sicilianu sia una lingua o un dialetto penso, come ho già scritto, che il sicilianu è un idioma rimasto
in bilico fra lingua letteraria e vernacolo. In fondo, essere “dialetto” piuttosto che “lingua” non è mica un’offesa….