La questione della lingua
(Carmelo Fucarino)
C’è un momento della storia culturale in cui le spinte eccentriche della comunicazione linguistica diventano troppo violente ed eversive e si teme l’esplosione della biblica torre di Babele. A parte i tanti talk show che hanno una loro storia particolare di sottocodici gergali in cui si capiscono solo gli addetti, tra schiamazzi e urla e reciproci improperi, anche la comunicazione dei telegiornali e dei programmi culturali comincia ad imbarbarirsi. Mettendo anche da parte i cosiddetti incontri culturali che hanno loro ristretti sacerdoti e vati con i loro sorrisi e la loro parlata dialettale amicale, anche se pur pregni di alte riflessioni, quello che maggiormente turba è la quotidiana esperienza dei telegiornali, necessaria ormai per la diffusa esigenza di notizie istantanee. Per non essere maschilisti, ma in questo caso bisognerebbe invocare una parità, data la tendenza all’inverso dei “servizi” e dei report televisivi, tutti o quasi al femminile, povero Mentana.
Inoltre si insegnasse e si pretendesse che la balzana “opinione” personale, fosse separata da un alto muro dalla notizia, come si pretende nella stampa anglosassone. Ultima chicca, dopo tanti “sversamenti” ed “esondazioni”, un servizio sulla “mondezza” napoletana. Ho immaginato che si volesse parlare delle doti della Lucia manzoniana, piena di purezza e candore acqua e sapone. Poi ho subito focalizzato il concetto, era la “munnizza”, translitterata in supposto italiano. Curiosità del lessico, mi sono affidato al Devoto e ho scoperto che a Roma si dice così la “in-mondizia”, con l’eliminazione del prefisso negativo. Stranezza somma che nei discendenti dei latini si tenda all’eliminazione e non all’aggiunta. In genere il siciliano aggiunge il prefisso in-, anche quando non occorre. Questo preambolo per tornare alla questione della lingua e alle facili e fantasiose traduzioni dei nostri classici. Negli anni difficili del dopoguerra, non tutti i paesi siciliani avevano una scuola media, la scuola elitaria che era il gradino intermedio tra le elementari (quelle ove allora si insegnavano gli elementi base, il leggere e far di conto) e l’istruzione secondaria di secondo grado. Era tanto elitaria, in ossequio all’ordinamento fascista di Gentile ancora in vigore in consolidato regime repubblicano, che si richiedeva per accedervi un rigido esame di ammissione. Per di più altro esame di ammissione si richiedeva per passare dal ginnasio, detto superiore, al Liceo classico. Eppure quelle erano scuole elementari di forte spessore culturale. Oggi da un questionario europeo siamo relegati penultimi nella graduatoria per la conoscenza dei “primi elementi”, con sommo sconcerto e scandalo dei politici. In quella scuola media elitaria il titolo che la distingueva dall’avviamento professionale era lo studio obbligatorio del latino, profondo e completo. Nel programma di insegnamento della lingua italiana, a parte la noiosa, ma strutturante analisi logica e grammaticale, si studiavano i classici epici antichi, l’Iliade in primo anno (la guerra degli eroi belli), e a seguire l’Odissea in seconda e l’Eneide in terza. Il Manzoni della salvezza giansenista si rimandava alla maturità del ginnasio, viatico il dolciastro commento di Luigi Russo. L’epica classica si leggeva nelle bellissime traduzioni poetiche di Monti, Pindemonte e Annibal Caro, delle quali si imparavano a memoria le parti più esaltanti. Che emozione quell’altisonante Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta. Sul testo si lavorava inoltre con la parafrasi e il necessario riassunto. Mi fermo a queste riflessioni, che fanno inorridire i moderni pedagoghi e gli insegnanti à la page. Venne poi la riforma con la scuola media “unica” e si fece guerra al latino, perché Cesare era un guerrafondaio sanguinario. In effetti si studiava alla media soltanto l’innocuo Eutropio e il didascalico Cornelio Nepote, le dolci favolette di Fedro, altro che le orripilanti fiabe nordiche di cappuccetti rossi, delle quali si decantano le qualità psico-terapeutiche. Ma c’erano tanti latinisti di sinistra di gran buon cuore e nemici delle guerre. Sì, anche perché il latino era elitario e perciò invece di insegnarlo a tutto il basso popolo si ritenne meglio toglierlo a tutti i cittadini, ricchi e poveri. Anche se qualche scuola dei ricchi lo mantenne come optional di lusso. Andando al sorpasso e all’eliminazione del peso e del disturbo dell’apprendimento scolastico i classici latini e greci forse si leggeranno fra poco solo nelle pessime traduzioni fatte in semplice ed arida prosa sgrammaticata. Fra i nostri esimi traduttori cattedratici mancano purtroppo i poeti. Allora i poeti traducevano in poesia le traduzioni dei cattedratici e degli esperti. Fino all’ultimo Quasimodo, alunno dell’Istituto Tecnico matematico-fisico di Palermo e discepolo privato per le discipline classiche di monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, si dice. A proposito di latino, non ricorderò le eccelse attività di ricerca della Columbia University di New York, ma inviterò soltanto a visitare un sito per me strabiliante, data la pratica che ho avuto delle lingue classiche in Italia. Prende nome dalla messaggera degli dei, Iris on line, ed è nato dalla passione e dalla fede di Lorna Richardson. Con la sua testardaggine ha portato avanti l’introduzione del latino nelle scuole elementari inglesi (alcune centinaia ad oggi), in un paese di lingua sassone e non neolatina. Sostenuta da Boris Johnson (sul quotidiano The Independent, Id quod cirmumiret, circumveniat – Latin makes a comeback), ha trovato un valido sostegno in Harry Mount ed in un suo libro dal titolo ammiccante e sornione, che è divenuto un best-seller (vedere copertina): Amo, amas, amat and that all – how to become a latin lover (London, 2008). Ha scritto qualcosa che da noi sarebbe ritenuto una follia, votati ormai ai simboletti e alla semeiotica dei ditini e dei visini scemotti: «If children learn ethnic studies, in ten years they will earn absolutely nothing from it. The ones who learn Latin will be the ones who will be able to go on to jobs in the City, or as lawyers, or journalists».