Perché doniamo? Una breve “antropologia” del dono

( Lavinia Scolari)

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Il 2 Novembre il mondo cattolico celebra la commemorazione di tutti i defunti, una ricorrenza religiosa che in alcuni luoghi d’Italia è percepita come una vera e propria festività civile, sebbene non sia riconosciuta ufficialmente come tale. Festività, sì, perché in alcune regioni, e in Sicilia soprattutto, il 2 Novembre è una festa: la “festa dei Morti”. Se le nuove generazioni di bambini siciliani sembrano mescolare la tradizione sicula con rituali di “importazione” americana, per i loro genitori e i loro nonni la “festa dei morti” era avvertita (e ancora lo è) con un’intensità tale da renderla in alcune famiglie perfino più partecipata del Natale. L’usanza prevede che la notte tra l’1 e il 2 Novembre i morti tornino a visitare i loro cari ancora in vita portando dei doni, in particolare ai più piccoli. In genere si tratta di cesti pieni di cibo e qualche giocattolo, per lo più di dolci tipici, come le Pupe di Zucchero o la Frutta di Martorana. I nostri nonni preparavano la sera prima intere tavolate di cesti traboccanti di “pasta reale”, la pasta di mandorle, dalle forme più disparate, frutta secca e altri balocchi.

Come è noto, il cibo crea aggregazione e socialità. Intorno a qualsiasi tipo di banchetto facciamo esperienza di condivisione. Una cosa non dissimile accade nel caso della prassi del dono. Il 2 Novembre, infatti, anticipa la tradizione dello scambio dei regali tipica del Natale: la notte della vigilia i bambini sanno di dover andare a letto presto per non disturbare l’arrivo di Babbo Natale, che sistemerà i loro regali sotto l’albero e, in alcuni casi, si rifocillerà mangiando qualche biscotto e bevendo un bicchiere di latte. Anche questa leggenda, come la tradizione siciliana dei Morti, ci dice qualcosa sull’importanza del dare e del contraccambiare come espressione di un legame.  «Il dono è ovunque» dice Jacques T. Godbout nel suo libro dal titolo Lo spirito del dono (1992, pp. 12-14). E ha ragione. La sicilianissima festa dei Morti e il rito annuale del Natale, pur con un significato spirituale certamente più profondo, sono due diversi momenti in cui il dono diventa protagonista in modo esplicito, diventa (o torna a essere) sacro.  Ma perché doniamo? Che cosa “significa” il dono? La parola dono è la trasparente evoluzione del latino donum, che indica propriamente il “dono” nel senso più concreto: la “cosa donata”, il “regalo”, e meno frequentemente il fatto di donare. Il termine è riconducibile alla radice *-, che esprime l’idea di “portare per conservare” (= prendere) e “portare per offrire” (= donare). Sia per i Romani sia per noi “moderni”, però, il dono non è soltanto ciò che si può toccare e vedere. Può anche trattarsi di qualcosa di invisibile agli occhi, purché susciti gioia e piacere, sia spontaneo e volontario, utile e vantaggioso. Il dono, d’altronde, assume molteplici sfaccettature. Uno dei regali più grandi che possiamo fare, infatti, è il tempo che dedichiamo a qualcuno. Il dono, allora, non è l’oggetto che regaliamo, ma un’azione di apertura verso l’altro, un atto spontaneo e gioioso che instaura una relazione. Il dono è relazione e noi doniamo perché abbiamo bisogno di rendere tangibile e corporeo il legame che avvertiamo con i nostri cari.  Quando doniamo non facciamo altro che avvicinare l’interlocutore, stabilire un rapporto con lui, un rapporto del quale la “cosa donata” è simbolo. Il destinatario del dono, nel migliore dei casi, desidererà contraccambiare, rispondere al nostro gesto di affetto con un contro-dono, in un meccanismo di dare e ricevere che conferma la relazione, la nutre e ci parla di essa.  Il dono serve così a creare legami oppure a rinsaldarli, a dire a chi amiamo “ho pensato a te, ai tuoi bisogni, alla tua felicità”. Quando, indossando i panni dei nostri cari defunti, portiamo ai bambini doni da parte loro, non facciamo altro che dire che i nostri morti non ci hanno lasciato, che vogliono mantenere un legame con noi, e che ci chiedono di ricambiarlo. Così dovrebbe accadere a Natale, quando ci si riunisce per scambiarsi i regali, vale a dire per riaffermare la relazione, alimentare i rapporti umani, gettare le basi di una continuità, a volte ricominciare da capo.  Uno dei più grandi studiosi della prassi del dono, Marcel Mauss, antropologo e sociologo francese del secolo scorso, nel suo Saggio sul dono racconta che le popolazioni tribali dell’Oceania, oggetto dei suoi studi, ritenevano che ogni donatore lasciasse nell’oggetto-dono traccia del suo passaggio e che i doni conservassero memoria delle persone tra le quali circolavano: in essi si pensava albergasse uno spirito, lo hau, lo “spirito della cosa donata”, che in qualche modo “obbligava” il donatario a contraccambiare il dono ricevuto, a proseguire la relazione. Sì, perché nella pratica del dare è insito il rischio della perdita. Il dono non è un contratto, né un impegno legalmente perseguibile, ma un’intenzione, una promessa di legame che esclude la certezza del contraccambio. Il dono è una scommessa, qualcosa che diamo senza pretesa di restituzione e comporta fiducia. Obbligo e libertà sono i due poli tra i quali la pratica del donare si muove. Per essere “pura”, dovrebbe coincidere con un libero atto di scelta. A volte, però, esistono doni occasionali, “dovuti”, proprio come quelli che ci si scambia per Natale, come se la festa ci obblighi a donare. Munera, li chiamerebbe Festo, ovvero doni cum causa, doni che si offrono per un motivo specifico e che implicano reciprocità. Ma che cos’è allora che fa la differenza? che rende un dono tale? L’intenzione. La disposizione interiore è una delle componenti principali che fa sì che il dono assuma molteplici aspetti. Esso, infatti, ha una natura duplice, uno statuto talmente debole che rischia di trasformalo nel suo contrario: il dono è potenzialmente “pericoloso”, non solo perché implica il rischio della perdita, ma anche perché spesso è usato come maschera per nuocere. Nel folklore germanico, ad esempio, come nella tradizione mitica classica e in quella favolistica, esso può diventare un’arma del “fare il male” nella forma del “dono avvelenato”: si pensi alla mela che la strega offre a Biancaneve oppure ai doni nuziali che Medea fa recapitare alla sua rivale e che, indossati, l’avvilupperanno tra le fiamme. Se il dono “benevolo” stabilisce legami sociali, il dono “malefico”, che ne è la controparte, si serve della sue qualità formali per avvicinare il nemico e distruggerlo. Spesso, nei miti e nelle fiabe, esso è uno strumento efficace di vendetta e di offesa. Detto altrimenti, il dono “positivo” crea relazione, il dono avvelenato la cancella, perché proviene da un nemico, da qualcuno che non mira a creare un legame armonioso di reciprocità, ma a nuocere e distruggere l’altro. Lo impara a sue spese l’eroe greco Aiace, che nella tragedia di Sofocle sentenzia (Aiace, v. 665): «non sono doni i doni dei nemici, né sono vantaggiosi». Ma com’è possibile che il dono possa avere esiti talmente differenti? Una risposta parziale ce la offre Lucio Anneo Seneca nel suo trattato in sette libri de beneficiis, dedicato all’indagine intorno alla pratica del beneficio nella società del suo tempo. Basterà sostituire la parola beneficium con la parola dono e ne avremo una definizione perfetta:

Itaque, non quid fiat aut quid detur, refert, sed qua mente, quia beneficium non in eo, quod fit aut datur, consistit, sed in ipso dantis aut facientis animo.

«Non importa ciò che si fa o si dà, ma con quale intenzione, poiché il beneficio [e il dono] non consiste in ciò che si fa o si dà, ma nella disposizione d’animo di chi lo dà o lo fa». Seneca lo sapeva già, che il dono non lo puoi toccare, esso è impalpabile eppure concreto, perché è una res che mette in comunicazione le nostre sfere interiori, che permette ai nostri animi di guardarsi (res inter animos geritur, ben. II 34.1). Noi doniamo perché siamo “animali sociali”, perché viviamo delle relazioni che intessiamo, perché abbiamo bisogno di scambiarci di continuo le nostre interiorità.

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