Sette storie o forse otto

(Carmelo Fucarino)

image

Da ufficio stampa

Leggo sulla prima pagina di un quotidiano: «Milano, imprenditore fallito. Evade 180 mila euro ma viene assolto “Colpa della crisi”». Sì, perché di questo si tratta, se fa scalpore anche il risparmio sugli 80 euro di zucchine di un ricco sfondato che compra tutto quello che vede e non vede. Ci si scherzava con il giovane, che staccava il biglietto all’entrata del Massimo, sull’illusione di andare a perdersi nel mistero del Siegfried. Almeno così annunziava il ticket di € 77,50. Invece ci era stato somministrato dal commissario plenipotenziario, senza opzione di rimborso, un nuovo pacchetto. Ma andiamo alle sette storie, in un teatro a ranghi ridottissimi per soli impenitenti aficionados ed amici, molti i palchi vuoti, minacce sentite, ma irresponsabili di non rinnovare l’abbonamento. Il patrimonio comune si difende con le critiche costruttive. Per inciso i presenti, sequestrati con uno spettacolo programmato astutamente a tempo unico di novanta minuti di fila. Titola un critico di professione: «Il mosaico di Andò narra con garbo i siciliani scomparsi» (forse aggiornamento del Diario senza data del 1995?).

Che le storie fossero sette, non sono riuscito a verificarlo, in questo flusso continuo in cui con il procedimento del taglia e incolla di multimediale tecnica, c’era il tutto del tutto sull’usato e l’abusato della moda e dei pregiudizi della e sulla Sicilia. Così come non capisco la rentrée postuma del barone Agnello (ultimo gattopardo?), omaggiato con un’ottava storia da parte dell’autore dell’happening-istallazione, salito in scena. Bastava raccontarla, lo spettacolo è “aperto” ad infinito (lo sa pure Chiara, assistente e casting). Quello che ho capito dall’avvio alla conclusione è che c’entrava la mafia, quella iniziale della scomparsa (legata al sonno dell’intelligenza?), con repêchage addirittura di una lettera di Maiorana (di sciasciana “scomparsa”), l’immancabile Santina Renda strappa-lacrime, ma certo, anche Mauro de Mauro (è sfuggito a me Mario Francese?), fino all’abusata lamentazione su Impastato, Falcone, Borsellino e perché no su san Pino Puglisi (con processione della reliquia, un pezzo di costola, e gara delle quattro parrocchie per averne una?). In mezzo a queste due mete sul piano narrativo e dei contenuti c’era di tutto e di più, commentato da sommi pensieri, scaduti a banalità fortuite, perché estrapolati e proiettati a mo’ di aforismi, da Shakespeare-Hamlet, attraverso Charles Péguy (mistico convertito a Cristo) fino alla Yourcenar, all’imprescindibile Borges dei fanta-creativi. Sul piano evocativo ancora all’inizio lo scherzo puerile di una crocefissione da vicolo con prete pregante chissà cosa, alla fine le tragiche sacre rappresentazioni dell’antico folclore del Venerdì Santo. Per legge di pari ostensione, non si sa mai, fra tanto Cristo sanguinante, la commossa recitazione della Sura della caverna. Il tema del sonno! Si parte in tono alto e acculturato da Ovidio e dal paese dei Cimmeri, ma poi si blandisce anche il pubblico dei reality con le interviste a campione, in cui si fanno o si scelgono per la casalinga e il professore, gente seria, le domande e le risposte adatte. Tema sublime: cosa è il sonno? Lei dorme? O perché l’apostolo pigro si addormentò al Getsemani (erano i tre fidati, come dice Marco, 14, 37, o tutti, secondo Luca, 22, 45 e pure Matteo?). Mi si perdoni, la solita banalità e l’offesa all’intelligenza quei sondaggi da strada spacciati per opinione di tutti gli Italiani. Bella la Volksmusik siciliana del fortunato duo di Sutera che partito dalla prima di queste storie, incompresa a Catania, sono approdati agli allori di Venezia con il tema musicale del film nel vicolo divenuto autostrada dell’allucinata Emma Dante dei miracoli. Certo, appassionata la recitazione della Finocchiaro (davanti a nudo shock), ma le voci strascicate o quelle metalliche e distorte da risultare nella cattiva resa, spesso incomprensibili. E il carrettiere e i “lamentatori” di Memento Domini. Poi le foto in bianco e nero di Scianna, facili inquadrature su “nature morte”, che nella proiezione di frame risultano ombre evanescenti, poste là in mezzo a mafia e lamenti popolari. La lingua siciliana risulta protagonista in qualche performance inserita a parte, fuori dal testo musicale di Marco Betta, nel ribollente pentolone dei collage multimediali. Capisco, il multimediale è bello, è in, è moderno. E qui tutte le arti e i mestieri si sono riuniti a tediare, talvolta urtare lo spettatore, essendo proprio urticanti e insostenibili. Basterebbe agli autori sentire le critiche degli sfilanti all’uscita, personcine perbene come me, che non si azzardano a contestare, se non con il solo metodo del rifiuto dell’applauso. Un appello a Marco Betta. La musica è una cosa seria e come tale va composta ed eseguita. E la sua musica in questo pot-pourri di sequenze di musica, canzoni Volk, semplici voci recitanti, silenzi e filmati ad libitum, la sua musica presentava pagine di alta tecnica e di impatto emotivo. Certo c’erano anche pagine culinarie, ma in ogni composizione possono starci. A me è piaciuto il commento alle foto dei dormienti e il brano conclusivo poco disturbato dalle immagini e dalle voci strascicate o urlate di bordone. Un consiglio appassionato. Maestro, eviti questi mixing impropri ed estranei alla sua musica. Così la sua creazione dà l’impressione che sia solo una colonna sonora, secondaria alla performance fondamentale, un semplice commento al film (così mi è parso anche dai commenti apparsi nei quotidiani), senza storia, un sonoro al film sulle definizioni del sonno, altro che elegia. Provi, maestro, a presentare in concerto la sua musica. Come oratorio (Gesù nel testo è assai presente a proposito e a sproposito), come poema sinfonico, non ha importanza la definizione e i confini del genere. Sono certo che la sua musica sarà gustata e sentita in modo diverso, più profondo. Non si può ascoltare la musica se vi si sovrappongono recitativi, urli e squittii (figurati lo scandalo di un colpo di tosse, orrore per i cellulari), al limite anche il silenzioso scorrere di immagini sbiadite può risultare fastidioso, perché per la loro insignificanza può innervosire. Almeno in questa operazione multimediale, credo, e vorrei l’opinione di musicologi. Credo che la musica sia stata la perdente e sconfitta in questa accozzaglia di stilemi e di mestieri. Eppure il Massimo è il santuario della musica, voce e strumento, è un teatro d’Opera (con la o maiuscola) e non di cabaret. Capisco anche che sarà assai difficile musicare la prosa con il linguaggio banale del parlato, anche le canzonette sono in versi. Perché i testi delle romanze, dicevo delle parti delle soprano non erano poesia. Bella la ninna nanna, ma non aveva niente a che vedere con il testo musicale. Perché alla fine, nello spartito, c’erano inserimenti che stridevano o erano semplici corpi estranei, di cui mi deve dare atto il maestro. Un elogio al direttore di orchestra George Pehlivanian, habitué al Massimo (prezioso il suo Boris Godunov), per il quale trova un posticino fra i suoi appuntamenti internazionali. Ha interpretato lo spartito con passione, talvolta in full immersion, e ha saputo ben pazientare durante gli altri lunghi intermezzi sonori.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy