RENATO BRUSON: VINCITOR DEI SECOLI……

(Salvatore Aiello)

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Renato Bruson, come i rari e grandi cantori,oggi a pieno diritto è entrato nella storia e nel mito per avere conferito all’Opera, lungo l’arco di un cinquantennio, una facies nuova, straordinariamente nuova, frutto di doti assolutamente spiccate e particolari.Con una certa timidezza torno a stendere queste note su uno degli Artisti più significativi e più affascinanti che ho avuto la fortuna di ascoltare e ammirare su varie ribalte teatrali; è difficile poter dire qualcosa di originale che non sia stato già detto perché ad esaltare l’arte dello straordinario baritono hanno contribuito le firme più prestigiose dei più eminenti critici e musicologi.La mia non è soltanto la voce di uno storico ma anche di un testimone attento e fedele dell’itinerario artistico e spirituale da lui conquistato tappa per tappa con certosina fatica e in questo forse la sua fortuna. Non era dotato di una grande vocalità, personale e bella sì che al debutto dovette immediatamente confrontarsi con nomi assai eclatanti della sua corda in intensa attività, mi riferisco a Taddei, Bastianini, Cappuccilli, Milnes,Bruscantini, Protti, Gobbi solo per citarne alcuni e con il clima culturale di quel tempo che ancora risentiva di un approssimativo modo di intendere e sentire il canto ed il teatro.

 

Un certo Verismo aveva imperato con la sua trainante concezione secondo la quale cantare significava soprattutto emettere voce,voce ,voce con una confusa idea e poca cura degli stili, della tecnica e quindi dell’interpretazione.  Si narra che Bruson nel 1952 ascoltò assorto, a Verona, La Gioconda, protagonista Maria Callas diretta da Votto ne venne folgorato e da quella sera si arruolò diventando neofita dell’Opera. Non so quanto ne fosse cosciente ma credo che nulla di meglio gli sarebbe potuto accadere, poiché l’avere incontrato il soprano più sconvolgente dell’epoca inevitabilmente suscitò in lui il convincimento di farsi, su quella scia, sacerdote di una nuova causa. Angelo Sguerzi scrisse:” Quando Maria Callas apparve sulle scene le prime volte, parve d’incanto che il melodramma si svelasse in una forma nuova, più arcana ed indecifrabile conteso fra estasi inedite ed eroici furori non meno sconosciuti”. Come la Callas infatti Bruson si affermò e rimane un restauratore di stilemi antichi per fraseggio variegato, bellezza di timbro al bisogno anche dolce, dizione scultorea ma soprattutto per l’aristocrazia e la nobiltà della linea musicale che l’imposero come ho già ricordato, pur fra tante iniziali diffidenze.  Come tutti gli innovatori è logico che abbia incontrato serie difficoltà.; disorientava il suo modo di intendere ed approcciare la musica, il suo impegno di esecutore fedele

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Nabucco

ma soprattutto il sentire, soffrire, ricreare i personaggi a lui affidatigli con studio attento, scavo ed inesausta passione. Bruson è sempre stato nella musica di cui cantava ogni nota, di cui coglieva tutte le indicazioni che abitavano la sua memoria per poi dare alle parole il loro intimo significato impegnandosi a trovare l’esatto colore per realizzare quella parola scenica di cui parlava il sommo Verdi.  I suoi eroi -protagonisti si rivestivano della sua anima vera ed autentica, si creava in altri termini, quell’osmosi totale tra lui e il personaggio adottato, adattato, maturato di suoni e parole, illuminato dal talento musicale, irrorato dalla rinnovata umanità del suo canto originale. Mai routine, ogni volta nuova creazione, il nostro artista obbediente alla sua vocazione, si è messo in cammino e con lui anche l’uomo, l’uomo e il cantante quindi hanno riposato e goduto comunque nella perfetta sintonia. La sua innata eleganza lo induceva inoltre a rifiutare ogni ricorso al facile effetto; si accampava in lui la spinta ideale di elevare il canto a mondi altri e pedagogicamente si sentiva pertanto obbligato con responsabilità a rialzare le sorti del melodramma tenendo conto dei sommi Geni creatori e soprattutto del rispetto dei pubblici.  Sul palcoscenico il suo carattere umbratile, la sua ritrosia, il pessimismo che l’attanaglia d’incanto si scioglievano e obbediente alle emozioni e vibrazioni del suo cuore generoso si concedeva senza limiti mettendo a disposizione tutte le sue risorse, dimentico di sé per entrare nella storia di cui si occupava. Ho avuto la fortuna, come dicevo, di incontrarlo sulla scena sin dal 1964, al Biondo di Palermo, nella Cambiale di matrimonio, poi via via in spettacoli indimenticabili; nel ’66 al Massimo in Lucia di Lammermoor, nel ’67 nello Chènier al Teatro di Verdura e nel ‘69 nella Vestale accanto all’altro genio di quegli irrepetibili anni: Leyla Gencer. Ciò che decisamente colpì la mia sensibilità fu però il Rigoletto del ’71 al Comunale di Firenze ed i seguenti Faust e I Puritani al Massimo che rivelarono pienamente quel suo nuovo modo di intendere il Teatro. Un saggio ulteriore della Sua classicità emerse allorché fu applaudito cantore nell’Armida di Gluck sempre sulle nostre scene. In seguito ebbero inizio le mie trasferte e lo seguii in vari teatri il cui elenco sarebbe troppo lungo ma ricordo perfettamente il lavoro di maturazione fattosi quasi maniacale. Accostarsi allo spartito o ad un personaggio per lui era come accostarsi ad un mistero dove le note aleggiavano dal testo e si configuravano del suo genio interpretativo e della fiamma di rendere giustizia a tutto ciò che per anni era stato frainteso od ignorato. Rinasceva tout court con lui il baritono nobile, grand seigneur che recuperava la inobliabile lezione di Galeffi, Battistini, De Luca, Stracciari. In tutte le sue interpretazioni emerse sempre la capacità di cantare sul fiato, in maschera consentendo alla voce di farsi grande senza forzarla realizzando fraseggi illuminati ed articolati da una sensazionale tavolozza di colori, rafforzamenti, smorzature, sfumature elegantissimi ma soprattutto esibiva una linea musicale che era il frutto della profonda intelligenza e della suprema civiltà, qualità primaria questa che lo faceva viaggiare dentro le creature e che gli consentiva quello scavo interiore per coglierne e trarre quell’umanità calda di sensi .Un plauso particolare gli va tributato per il rigore ed indignazione assunti nei riguardi di direttori e registi poco inclini ad osservare quanto concepito dai compositori. La cifra che, nella parabola artistica, lo ha guidato e premiato è stata l’umiltà,la coscienza macerata di fare sempre meglio e la voglia di procedere per tappe per costruire un’identità che in progress lo ha visto pazientemente ampliare il repertorio consacrandolo insuperato cantore belcantista ; attraverso Bellini e Donizetti giungeva a Verdi autore prediletto i cui personaggi si stagliavano come monumenti di inarrivabile compiutezza. Non a caso Bruson iniziò la Sua carriera nel segno di Verdi infatti debuttò nel Trovatore a Spoleto nel ’61 ma ritenne che il suo vero debutto fosse da collocarsi ‘nel 67 al Regio di Parma nella Forza del destino direttore Vernizzi. Ampio ed articolato il Suo repertorio ricco di titoli leggendari e rari penso alla Sua militanza nella Donizetti Renaissance con il recupero del Belisario,la Caterina Cornaro,la Fausta con la Kabaivanska, Gemma di Vergy, Les Martyrs e Maria di Rohan con sparute incursioni in altri ambiti fine Ottocento e novecenteschi, segno questo della sua potenziata duttilità ad incarnare personaggi romantici. Odiava l’urlo, la forza spesso volgare del suono d’effetto; significativa anche la sua vasta conoscenza e frequentazione della liederistica che dal ’79 in poi lo consacrò “Signore della voce”. Se si dovesse definire in maniera conclusiva la sua Arte, la si potrebbe ritenere prettamente romantica e pertanto solitaria come si addice ai geni che hanno saputo cibarsi di dolori e lotte e certamente la vita di Renato Bruson affonda in antiche sofferenze di un’infanzia tradita e di una giovinezza tormentata che hanno lasciato il segno ma è dal dolore che nascono i sogni, la voglia di risalire di conquistarsi una fetta di cielo, di pacificarsi con l’universo, di correggere la virgola storta che la vita ci impone e tutto questo attraverso il miracolo della Musica che lo ha elevato in una dimensione alta, unica e che lo ha trasformato, lui umile contadino ed operaio, in “vincitore dei secoli”. Indimenticabili le figure tragicamente affrontate di padri, forse come Verdi, memore del tormento di una paternità anche a lui negata. Enrico Caruso lasciò detto:”La vita mi procura molte sofferenze, quelli che non hanno provato niente non possono cantare” e Bruson ha saputo liberarsi e sublimare le ferite dell’esistenza proiettandole nei suoi personaggi che così sotto qualunque veste, anche regale, ci convincevano che non esistono vite né facili né felici e che in fin dei conti il potere, l’amore avvelenano e si cibano fondamentalmente di effimero. L’unica nota malinconica è che la sua lezione, il suo comportamento coerente, il senso profondo della dignità che lo permeano non trovano degni eredi mobilitati, in una staffetta ideale, ad accogliere la sua esemplare scelta di vita. E’ doloroso constatare che con lui, per il momento, si è conclusa un’ epoca e tutto questo è pesante per le sorti del Melodramma in bocca oggi a ciarlatani, urlatori, superficiali arrampicatori in cerca di facili consensi e facili lucrosi guadagni che nulla hanno a che fare con l’Arte sovrana di cui Bruson è stato geniale, unico e irrepetibile vessillifero.

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