IL BARBIERE DI SIVIGLIA
( Salvatore Aiello )
“Io confesso che non posso fare a meno di credere che Il barbiere di Siviglia, per abbondanza di vere idee musicali, per verve comica e per verità di declamazione sia la più bella opera buffa che esista” questo il giudizio di Verdi che per un trentennio aveva accordato al capolavoro rossiniano ammirazione tout court e su questa scia Ildebrando Pizzetti per il centenario dell’opera: “tanto la musica del Barbiere ci dà l’impressione di esistere quasi come un fenomeno naturale che si direbbe sia sempre esistita”. Viene pertanto difficile pensare che questo capolavoro che ha girato il mondo ininterrottamente amato a furor di popolo per i caratteri che presenta, per l’eternità dei sentimenti, abbia conosciuto al suo debutto uno storico tonfo. Il Barbiere, pur conservando elementi validi e portanti dell’opera buffa, ha i caratteri decisi della nuova commedia umana alla luce della temperie illuministica che promuove tipi e macchiette ad assumere configurazioni di personaggi capaci di un proprio sentire pur nei meandri di un intreccio che vedrà surclassato il vecchio mondo dai giovani amanti decisi a tutto nella coerenza del loro progetto con la connivenza di un homo novus (Figaro) esponente di una borghesia scaltra e capace di costruire il proprio destino economico. “L’idea di quel metallo” fa gola non solo a lui ma anche a Don Basilio e a Don Bartolo ed è un leitmotiv presente spesso nella vicenda.
L’opera é tornata al Massimo di Palermo dopo la pausa estiva con le scene di Angelo Canu sobrie e funzionali pur se in qualche momento distrattive per le frequenti rotazioni delle case e gli adeguati costumi di Marja Hoffmann dalle tinte vivaci; le brillanti luci che rimandavano alle suggestive e calde tonalità di Siviglia e della Spagna erano di Fiammetta Baldiserri. La regia, firmata da Francesco Micheli ripresa da Alberto Cavallotti, ha funzionato liberando la recitazione da vecchi atteggiamenti superflui e movenze, captatio benevolentiae di un modo passato di intendere Rossini; si può ascrivere a suo merito quello di avere colto l’odierna interpretazione e non a caso delimitava e bollava con colori stigmatizzanti la statura dei personaggi: Figaro in rosso, Rosina in giallo, Almaviva in blu, Bartolo e Basilio in nero come sparvieri, come la loro anima vecchia incapace minimamente di trovare spiragli di comprensione e solidarietà verso il mondo in progress. L’unica menda che ci sentiamo di fare è l’avere affollato la ribalta, quasi assiduamente, di mimi spesso dal tratto inopportuno. E’ stata comunque una bella serata all’Opera per un’osmosi tra palcoscenico e fossa orchestrale dove agiva, impegnato anche al fortepiano, Stefano Montanari, eccessivo e fuori luogo nel suo look, entusiasta e partecipe di far suonare e cantare Rossini in un ideale recupero di ciò che fu, scrostato quindi di una tradizione che spesso ne ha violato e tradito lo stile. Nel 1968 a Salisburgo, con la revisione di Zedda, nasceva anche con Abbado, un nuovo modo di leggere e rivisitare il pesarese tenendo in conto più l’edizione del 1816 che del ’19 allorché Rossini riscrisse per Josephine Fodor-Mainvielle il ruolo di Rosina per soprano. Da quella data, con la renaissance rossiniana, correva l’obbligo di coniugare tradizione e innovazione in un lavoro di ricerca, di continua revisione e di pulizia. Di tutto questo ha tenuto conto il nostro direttore sin dalla sinfonia (l’autore la riproponeva ancora una volta dopo l’Aureliano in Palmira e l’Elisabetta regina d’Inghilterra) con un’orchestra pronta, brillante e attenta a tutte le sue indicazioni e se in qualche momento il suono è sembrato debordante, tuttavia possiamo considerare la resa equilibrata e di buona filigrana a servizio di un cast di qualità. In grande risalto la lezione di civiltà musicale e interpretativa di Alessandro Corbelli un Bartolo di pregnante intelligenza, sempre dentro la musica con una recitazione che è stata una lezione riportandoci alla memoria il nostro assai rimpianto Sergio Bruscantini e con lui il tenore Lawrence Brownlee un Almaviva dalla voce svettante anche se di controllato volume ma ben educata e tecnicamente solida, capace di teneri abbandoni e di autorevole piglio; interessante la ripresa del taglio “Cessa di più resistere …” con cabaletta foriera del rondò di Angelina della Cenerentola. Non meno suggestiva la presenza di Silvia Tro Santafé, scenicamente misurata, che restituiva a Rosina la splendida vocalità di Geltrude Righetti Giorgi, prima interprete, con una voce di bel colore, omogenea nei registri e di apprezzabile agilità. Di tutto rispetto il Don Basilio di Adrian Sampetrean, di bella presenza, dalla voce calda,morbida, luminosa, emessa con un controllo di tutti i registri senza mai cedere ad effetti e sguaiataggini. Qualche neo nella prestazione, spesso esuberante, di Dalibor Jenis un Figaro disinvolto scenicamente ma dal timbro talvolta aspro; stentorea la vocalità ma con facilità della zona acuta lasciando un po’ sguarnita la tessitura centrale e con un fraseggio carente di fantasia. Efficaci Giovanni Bellavia (Fiorello) ed Elena Borin (Berta). Completava il cast Riccardo Schirò (Un ufficiale). Buona la prova del coro istruito da Piero Monti. Caloroso consenso di un pubblico per lo più soddisfatto.