Come parlano i siciliani del XXI secolo?
( Pippo Pappalardo)
L’aringa – Pastello di Pippo Pappalardo
Che lingua parlano oggi i siciliani? Moltissimi parlano sia l’italiano sia il dialetto; molti, solo l’italiano; pochissimi, solo il dialetto (meno del 5%). Se si pensa che cento anni fa la situazione era totalmente capovolta, si deve essere grati alla Scuola e ai mezzi di comunicazione per avere prodotto risultati così apprezzabili. Quale italiano parlano i siciliani? La domanda ha un senso. Infatti l’italiano parlato in Sicilia non è un linguaggio uniforme, neppure sotto il profilo fonetico. Molti siciliani, ma non tutti, quando dicono «strada», fanno sentire il suono della «fricativa palatale» str; quando dicono «trema», pronunciano il nesso consonantico tr come gli inglesi pronunciano la parola tree (albero). Anche sotto il profilo lessicale e quello morfosintattico l’italiano parlato in Sicilia non è omogeneo. Gli studiosi ne distinguono due tipologie: l’italiano «regionale» e l’italiano «popolare». L’italiano «regionale» è usato da parlanti mediamente colti.
Esso è influenzato dal dialetto nella pronuncia, nel lessico e nel costrutto; la correttezza linguistica, tuttavia, non ne risente nel senso che il parlante non cade negli strafalcioni di cui è vittima chi usa l’italiano «popolare». Non si trascuri, poi, che l’italiano «regionale» è stato utilizzato – e lo è tuttora – da molti letterati isolani. Si pensi a Giovanni Verga quando, rifacendosi alla frase dialettale rristari suprô stòmacu, scrive nei Malavoglia: «…le ragazze si maritano così, se no vi restano sulla pancia…». Si pensi a Leonardo Sciascia quando scrive «A lato a loro era una coppia di americani…» riprendendo il costrutto dialettale allatu a iddi; quello stesso Sciascia che ama usare termini come «zaurdo», «tradimentoso», «sdirupare», etc. Si pensi ancora a Vincenzo Consolo, quando introduce nei suoi racconti termini come «dammuso», «massaro», «retrè», etc. Si pensi a Lanza Tomasi di Lampedusa o a Luigi Pirandello. Si pensi infine ad Andrea Camilleri quando, nella parlata dei suoi personaggi, fa risaltare la loro natura di figli di quella terra in cui la vicenda si svolge. L’italiano «popolare» è invece usato da parlanti con un basso grado di istruzione scolastica. In questo tipo di italiano il dialetto si fa sentire molto. Alcuni esempi: «mio padre sta buttando voci» (me patri sta ittannu vuci) per significare che il padre grida; «scendo la valigia con l’ascensore» o «esco la macchina dal garage», con verbi intransitivi che reggono il complemento oggetto; «essendo che Lucia non ritorna», derivante da sennu ca Lucia nun torna; «quel bambino è senza lavato» per dire che un bambino è sporco; «senza parlare» al posto di non parlare; e così via. L’italiano «popolare» trascura gli accenti e gli apostrofi, ha difficoltà nell’accordare il genere degli aggettivi con quello dei sostantivi, da luogo a errori nell’uso del congiuntivo («mi facci il piacere»), del periodo ipotetico («se avresti andato alla festa, ti saresti annoiato»), del comparativo («nella più peggiore delle ipotesi»), etc. Sotto il profilo lessicale i parlanti l’italiano «popolare» usano parole storpiate come «fando», «mantàrimi», etc. C’è chi dice «mellone» invece di anguria, «dolceria» invece di pasticceria, «arraggiato» invece di sgargiante, «nèglie» invece di cianfrusaglie, «sdegnoso» invece di nauseante, «gèbbia» invece di vasca, «ingiuria» invece di soprannome, «picciotto» invece di giovanotto e così via. Sotto il profilo fonetico l’italiano «popolare» coltiva strane pronunce come «pissicosi» invece di psicosi, «puttroppo» invece di purtroppo, «poblema» invece di problema, etc. Per non parlare del raddoppiamento consonantico («libbero», «sàbbato», «intelliggente», etc.). Insomma, sia nel caso del «regionale» sia nel caso del «popolare», l’italiano è influenzato dal dialetto al punto da trasformarsi in una lingua tipica della Sicilia. E si avvertono differenze anche fra una provincia e l’altra. I catanesi, ad esempio, tendono ad eliminare la r quando precede un’altra consonante e pronunciano «potta» invece di porta, «motta» invece di morta, «canne» invece di carne, etc. Parallelamente alla dialettizzazione dell’italiano, è in corso da tempo un lento processo di italianizzazione del dialetto. Come sostiene il noto dialettologo Giovanni Ruffino nel suo libro Profili linguistici delle regioni – Sicilia, Ed. La Terza, il serbatoio del dialetto si svuota mentre il serbatoio dell’italiano si riempie. In sintesi, l’italianizzazione del sicilianu avviene mediante:
a) la perdita di parole vecchie come curdaru (cordaio), armuarru (armadio), custureri (sarto), strùmmula (trottola), àstracu (terrazzo), bbuffetta (tavolo da pranzo), etc. che vengono meno perché erano legate a una società contadina e artigianale in via di estinzione;
b) l’assimilazione di parole dialettali alle corrispondenti forme italiane; es. verbi come turnàu, campàu che diventano turnò, campò oppure sintìa, avìa che diventano sinteva, aveva; parole come fadali, catu, spènziri che diventano grembiuli, sìcchiu, giacchitedda, etc.
Anche la letteratura dialettale offre esempi di italianizzazione. Uno per tutti La peddi nova di Ignazio Buttitta, una recente ristampa per i tipi di Sellerio Editore, dove incontriamo termini come epìgrafi, sarà (un inatteso futuro di èssiri), impussibilità, divirtimenti, etc. Peraltro il testo evita i usare le contrazioni vocaliche (es. a+u=ô) e, di conseguenza, non usa l’accento circonflesso. Inoltre trascura l’accentazione delle parole sdrucciole e ciò, a mio avviso, non favorisce la lettura. L’occasione mi è utile per ribadire che non sarà mai troppo tardi per contrastare l’arbitrarietà dell’ortografia del dialetto siciliano. Capisco bene che i cambiamenti lessicali mantengono in vita una lingua, ma continuo a non capire come si possa scrivere in dialetto senza avere le linee-guida dell’ortografia. Insisto perciò nell’auspicare la definizione di un criterio ortografico, di una «koinè ortografica» – non «lessicale», attenzione! – che dia agli scrittori la sicurezza di scrivere senza tema di subire critiche soggettive e partigiane. C‘è da dire infine che la stragrande maggioranza dei siciliani non ha preferenza per il dialetto piuttosto che per l’italiano, né per l’italiano piuttosto che per il dialetto. I parlanti siciliani passano da un linguaggio all’altro con naturalezza. Fatti salvi i casi in cui l’ufficialità della situazione impone un uso stretto dell’italiano, in Sicilia si verifica quel fenomeno che i linguisti definiscono «commutazione del codice», cioè il passaggio da una lingua all’altra all’interno di una stessa situazione comunicativa (cfr. S. C. Sgroi in AA.VV. Lingue e culture in Sicilia, CSFLS, Vol. I, pag. 188). In ogni caso, nell’ambito famigliare o amicale, il dialetto mantiene salda la sua ragion d’essere. Quanto sopra detto attenua i timori che il dialetto precipiti nell’oblio. Un sicilianu che cambia significa che è una lingua viva. Una lingua che non cambia è il latino: ed è una «lingua morta»! I cambiamenti osservati nel dialetto siciliano sono invece la prova della sua vitalità