Notizie da barbiere

(Carmelo Fucarino)

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Un salone di via Aurispa a Palermo

Un giorno che è venuto. O forse è appena vicino, forse già passato in alcune città. L’antichissima, raffinata arte del barbiere, sta scomparendo, travolta dalla moda delle barbe di prestigio o dal fai da te. Fortunati, quei pochi, che ancora possono sentire gli odori del salone da barbiere, quel sapone dozzinale, come le brillantine e i profumi per il volto. Certo, l’invenzione di Gillette sconvolse un secolo fa le abitudini, ma resistette per anni il piacere del massaggio sul volto con il pennello di setole e quelle dita esperte che distendevano la pelle. La prima volta che misi piede in piazza Syntagma ad Atene, – che stupore angosciante ricordare sensazioni di cinquant’anni fa -, provai l’intenso piacere del panno caldo sulla pelle appena rasata. Ora la furia, la frenesia della corsa, quell’impulso di bruciare i secondi, che ha vietato il celestiale relax del barbiere.

Ad Atene in un giorno del 412 a.C. o giù di lì, con i secoli prima di Cristo non si può fare i sottili, anche perché è pur difficile sapere quando nacque Cristo, diciamo un giorno di quegli anni suppergiù, un anonimo straniero, che, «come è verosimile», afferma Plutarco, perché anche questo non era certo, era sbarcato al porto internazionale del Pireo, il più grande di allora. Dopo molti mesi, si suppone, di navigazione su una nave da carico, aveva bisogno di un barbiere. A quei tempi i rasoi personali erano rari e si rischiava di tagliuzzarsi la faccia. Veniva sicuramente da Occidente e ne aveva cose incredibili da raccontare. Si era perciò «seduto nella bottega di un barbiere». Avete ben presente, se praticate ancora qualche “salone da barba” dei quartieri periferici, quel salone unico con poche pretese. C’è sempre una parete quasi interamente occupata da uno specchio, delle poltrone pretenziose per barba e capelli, dei divanetti falso pelle, dei clienti in attesa del turno, altri lettori del quotidiano cittadino, altri affabulatori delle prime e delle ultime notizie. E le curiose bottigliette per profumi, gli unguentaria, quanti lekytoi possediamo dagli scavi, addirittura con le tracce degli unguenti inventati. Ricercato quello ai petali di rosa, utile quello per profumarsi i piedi, una sciccheria l’uso di offrire unguenti ai commensali. In una bottega di barbiere del V secolo a.C. si sedette dunque uno straniero, forse, dico forse, sbarcato al Pireo. Immagino che si trattasse di una bottega nella zona dell’odierna Acropoli, allora piena di negozi, una ricchissima e fornitissima agorà. Fatto un giro di orizzonte e squadrati gli altri avventori, penso, cominciò a narrare della notizia ultimissima, come oggi fanno le nostre fanciulle in ogni tv con le stragi in Egitto e in Iraq. Non so se la Siria ormai non faccia più notizia, ma l’Egitto sì, forse per via del nostro ministro degli Esteri. Ma la notizia che riferiva nel 413 a.C. il nostro “straniero” (in greco vuol dire anche “ospite”) sapeva veramente di incredibile, che la grandiosa flotta salpata alla conquista di Siracusa, una piccola città su un’isoletta, per dire una colonietta del lontano barbaro West, era tutta colata a picco o marcita. Ma ancor più incredibile era che presso un ridicolo fiumiciattolo detto Asinaro in una ressa della fuga erano stati fatti a pezzi diciottomila ateniesi, settemila erano stati fatti prigionieri oltre agli altri catturati sparsi per la campagna. E narrava tutto, penso, con commiserazione, dice Plutarco, «come se gli Ateniesi sapessero già tutto». E poi l’assemblea popolare e il dibattito acceso e la condanna a morte dei due celeberrimi strateghi Demostene e Nicia, una morte ignominiosa nella pubblica agorà dell’Acradina di Siracusa. Nell’assemblea solo Ermocrate, capo politico dell’aristocrazia, aveva proposto misericordia, perché «meglio della vittoria è il buon uso della vittoria». A monito di tante odierne società avanzate che praticano la vendetta per legge o per religione o per esclusivo nazionalismo. Ma ancor più triste la sorte nelle orride Latomie, con «due cotyli di farina d’orzo», costretti senza speranza di riscatto ai lavori forzati. Pensate la reazione del barbiere, come quelle del reporter stipendiato o free lance di oggi. Udito ciò, prima che qualcun altro lo sapesse, andò di corsa nella città alta, la parte nobile di Atene, e, avviatosi subito agli arconti, nella pubblica agorà diffuse la ferale notizia, che tutti ignoravano. Esplosero, naturalmente, turbamento e angoscia, gli arconti riunirono immediatamente l’assemblea e vi condussero il malcapitato barbiere. Richiesto ufficialmente da chi lo avesse appreso, egli non fu in grado di dire alcunché di chiaro. A furore di popolo si ritenne che fosse un contafrottole e volesse ad arte turbare la città, oggi diremmo, che era un perturbatore dell’ordine pubblico. Era un fatto grave ed inaudito che un barbiere osasse tanto. Fu pertanto legato alla ruota, sì, proprio così, e «fu torturato per molto tempo». Buon per lui che alla fine giunsero alcuni messi ufficiali che annunziarono come realmente si era svolta l’immane catastrofe. Plutarco scrisse che «si diceva che agli Ateniesi la sventura risultò incredibile soprattutto per mezzo di un messaggero», cioè per il modo come fu riferita, ma poi concluse che risultava difficile agli Ateniesi credere che Nicia avesse subito la sorte che spesso aveva loro predetto. Eppure ne verranno esperti che sconsiglieranno simili avventure, come la grandiosa spedizione contro Siracusa, i nostri Vietnam, Iraq ed Afghanistan.

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