Teatro Massimo La metamorfosi di un progetto

(Carmelo Fucarino)

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Una premessa necessaria per spiegare il contesto in cui ormai viviamo quotidianamente, nell’Italia sbracata e priva di estetica. Una serata di noia televisiva, un passaggio distratto e per abitudine su Rai1 e la traboccante Antonellina nazionale. Sembrava la solita gara della tv nazional-popolare, ma mi fece fermare sul piano televisivo la presenza di un barbuto Placido Domingo che prometteva di dirigere l’orchestra. Poi allargandosi il piano di ripresa, l’incanto di un’Arena di Verona straboccante di pubblico in ogni ordine e grado. Non si trattava dunque di una particolare serata culinaria, di festival e gare di voci bianche della Clerici (organizzatore del programma Mazzi, quello di Sanremo), non era la replica delle sue matinée della cucina, ma niente meno che l’avvio delle celebrazioni dei “cento anni di opera” della prestigiosa Arena sotto il titolo pretenzioso e fatidico: «Lo spettacolo sta per iniziare». Leggo oggi a freddo sul Corsera sotto l’analisi graffiante “La lirica kitsch e la caramella Clerici”: «Mai titolo fu più azzeccato. Perché chiamare Andrea Bocelli, José Carreras e Placido Domingo, mettere in fila i brani più celebri della lirica («una hit parade della lirica!»), costringere il pubblico alla pañolada, dedicare Casta diva a Franca Rame non significa costruire uno spettacolo, anzi ».

Per parte mia non ho resistito molto ai languori di Bocelli e al consueto “’O sole mio” polifonico. Che dire, nelle sue promozioni dell’Italia nel mondo anche Caruso si cimentò con questa melodia. Devo ammetter che di tanto in tanto mi vinse la curiosità. E ne rimasi basito per il degrado culturale, incredibile in una istituzione così alta e celebre nel mondo. È probabile che fra qualche giorno vi torneranno i giochi dei gladiatori e le battaglie navali di imperiale memoria. Perché la Clerici può essere bravissima e simpatica, ma il suo look è legato ad altro. Penso che sia arduo vedere Grillo nei panni di Hamlet. Lo shock veronese non poteva essere più premonitore. Il Massimo mi aspettava con le promesse di due storici centenari. Al foyer un commesso mi porgeva un programma. Insolito, perciò curioso, ma assai semplice. Il progetto per il quale avevo anticipato un abbonamento con diritti di prelazione (non si capisce la ragione di questo “pizzo”; se pago con l’anticipo di un anno, avrei invece diritto ad uno sconto) era stato unilateralmente modificato. Scomparso il secondo piatto forte del Ring del tanto reclamizzato Wagner. In sostituzione del titanico Siegfried mi si offre altro in corso d’opera, una specie di oratorio, detto in modo surrealistico “opera per musica e film” (?) e con un titolo altrettanto criptico e burlesco “Sette storie per lasciare il mondo”. Senza offesa per la fatica di Andò e del caro Betta. Come se acquistassi un anno prima un appartamento e alla consegna mi si concedesse paternamente un bugigattolo. Altra immaginifica sorpresa: la dirigenza si offre di non farmi pagare prelazione (chiaro?), se pago a luglio l’intero abbonamento per la stagione 2014. Certo, con uno Stato che incamera un anno prima il 99% di acconto su ipotetici futuri guadagni, da un piccolo ente palermitano diretto da un servitore dello Stato non si poteva aspettare di meno. Questo forse basterebbe per descrivere la serata. Ma troppo si è osato, fino a raggiungere il ridicolo, annullando i sacrifici di pur bravi etoiles, il perfetto, flessuoso Giuseppe Picone e la silfide Soimila Lupu, e quelli di esperti orchestrali e coreuti. Continuo a chiedermi come si possa far scendere sulla scena un meccanismo dentato da orologio a cucù, si badi, funzionante a tratti, non sempre, per alludere allo sconvolgente tema della sinfonia della Forza del destino! E come si può trasformare in movimento di danza una mielosa e surreale lettera di Verdi, cadenzata con voce altrettanto mielosa e metallica, da aeroporto, e disegnata e gesticolata ai frastornati spettatori con il linguaggio a segni e gesti usato dagli ipoudenti. Per poi sceneggiare il doloroso corale Dies irae della Messa di Requiem con una sarabanda di danzatori a torso nudo. Qui mi fermo e nulla aggiungo ad altre cadute di stile, su corse e girotondi sulla scena. Anche perché l’invito sul social-trash Facebook a stuprare una ministra dello Stato è oggi definito da Chiara Saraceno su un quotidiano, impropriamente definito di sinistra, la «grossolana maleducazione di una persona», non un crimine razzista e, si dice oggi, antigenere. La musica di Verdi ha sempre un suo fascino e certi temi trascinano sempre, in qualsiasi salsa, anche come reclame di deodoranti e salviette igieniche. Ma adeguarli a quadri indefiniti e atematici di balletto ne corre. La struttura del balletto ha sue regole, si inserisce in un contesto narrativo, l’azione disegnata con la mitica mimesi aristotelica, il corpo che si trasforma in parola e ne disegna i misteri (così ancora, prima di Diaghilev, nel rivoluzionario Marius Petipa, del quale si promette a dicembre l’edizione dello Schiaccianoci, se Dio vorrà!). Certo le figure, i passi, fino alla sempre strabiliante pirouette o la sissonne per i preziosismi e la bravura dei due eccelsi ballerini, ma non bastano da sole a far diventare qualsiasi brano musicale un balletto. Perché poi alla fine il corpo simbolo è scomparso e sulla scena è restato a chiusura il pianto nostalgico di ebrei prigionieri, il Va pensiero, sola struggente voce di schiavi.

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