La storia conclusa di Morgantion
(Carmelo Fucarino)
Un gruppo affiatato del Lions Palermo dei Vespri ha realizzato, su progetto e promozione di Lucina Gandolfo, un tour esplorativo nell’Aidone dei Siculi, una vera e propria full immersion, prima nel vastissimo e straordinario sito archeologico, poi a verifica dei manufatti artistici rinvenutivi nel nuovo e ricco museo cittadino, che vanta il mastodontico torso di statua, dai media arditamente definita di Venere, in effetti la ricostruzione di un raffinato himation, che ha reso celebre nel mondo l’antica Morgantion in virtù di un furto, delle peripezie e dei passaggi dei mirabili acroliti e di un avventuroso rinvenimento da archeo-spy.
In fase di avvicinamento si è avuta occasione di dibattere sullo stato rovinoso dei nostri beni archeologici, delle ruberie, delle quali questa, resa celebre per l’opera spregiudicata del Malibu dei Getty, è soltanto la punta di un iceberg, e dell’eterna quaestio, se è meglio scavare e lasciare tutto a piena aria, o ricoprire tutto, conservando soltanto la ricostruzione storica e artistica attraverso la relazione degli scavi. Esempi di scavi abbandonati all’incuria e all’offese del tempo e degli uomini forse inducono ad una seria riflessione su tutta l’attività archeologica e sulla progettualità delle aree di ricerca. Tuttavia da altra parte i gravi ed irrecuperabili danni procurati dai tombaroli rendono urgenti gli interventi atti a precederli, non avendo mezzi e personale per proteggere i siti. L’ironia della questione, spesso l’opera dei tombaroli rende noto un sito sconosciuto e le sue opere straordinarie che diventano di conoscenza e fama internazionale. Rimane sempre imponderabile il problema di quanti altri manufatti rimangono nel segreto di case private e di ignoti fruitori. Anche per le opere d’arte finite nei musei internazionali attraverso scavi artigianali ed illegali il danno è pur sempre irreversibile, in quanto rimangono esempi anonimi di arte, decontestualizzati, semplici manufatti morti in eterno, perché nulla ci potranno mai dire sulla loro vita quotidiana, sulla loro concreta realtà storica. È comprensibile quale gravissimo danno è stato arrecato alla storia dell’umanità. Perché d’altronde l’archeologia ha questa unica e specifica finalità: ricostruire la nostra odierna identità attraverso la nostra esistenza passata. La fruizione prettamente “culinaria” ed edonistica di un’opera d’arte è secondaria rispetto alla ricostruzione dell’esistenza umana. Perciò anche i dubbi e l’equivoco, discusso ed irrisolto, della “musealizzazione” dei reperti archeologici, resi oggetti di stupore e di godimento, senza quella vitalità che ha in sé ogni oggetto recuperato dalle viscere della terra. Ma è un problema immane. In margine a questa spedizione culturale e in questa funzione di rivitalizzazione di massi informi, caotici e senza voce, di rocchi di colonne e di sezioni di case e ambienti, in questo intricato meandro di aree urbane, agorai addirittura a duplice livello, in un tessuto urbano di locali di culto e di lavoro, un muto teatro che sembra riecheggiare di voci e di canti, mi commuove il ritorno ai tempi in cui quella città stretta sulle colline e sormontata da una vasta acropoli pullulava di vita. E mi pare di risentire, risuscitando questa desolazione di massi e sassi sconvolti nell’odierna Serra Orlando, l’assordante frinire delle cicale e le liti dei passeri fra i rami di fico in una assolata estate del 211 a. C., e il fervore di vita in mezzo a quei vicoli squadrati a regola d’arte. Un cicalare di donne in dialetto dorico da un uscio all’altro e un rincorrersi vociante di paidakia, di fanciulli seminudi, qui nell’ampia agorà, fra i banchi dei negozianti e gli immancabili cani scodinzolanti. Lassù, panoramica, la casa in collina del ricco Eupolemos. Mai nome fu più irridente o forse apotropaico del suo, la “buona guerra”, forse per antico ghenos di guerrieri. Aveva acquistato un prezioso servizio di oreficeria, artistico e raffinato, nel quale aveva mescolato chissà quanto vino nei suoi simposi di “bevute insieme”, nei colloquiali party, sdraiato con amici sui triclini. Troppo bello per un paesino nascosto tra le colline: interamente in oro e argento, la pisside con l’augurale figura della cornucopia, lo scongiuro dell’emblema di Scilla, la phiala e la coppa con i piedi a forma di maschere teatrali. Perché il teatro era presente e ben capiente e portava risate e insegnamenti, le commedie del siceliota Epicarmo e poi i ditirambi del grande Filosseno con il suo Polifemo innamorato di Galatea che Alessandro Magno si fece mandare da Arpalo ai confini del mondo, oltre all’Iliade, corretta da Aristotele. Certo era stato preveggente a nascondere bene il suo tesoro. Poi l’orda di soldatacci ispanici aveva tutto travolto e bruciato. Bambini e donne avevano seguito il carro del vincitore ed erano morti da schiavi, in un campo assolato della Spagna. Eppure davanti ad una casa sulla collina il padrone invitava gli ospiti con un propizio conio linguistico, euechei, “statti bene”. Diversamente dall’ingresso degli hotel di Teheran ove tuona minaccioso un Go home, yankee. Poi improvviso un turbinio di zoccoli di cavalli e un risuonare di trombe e le voci, le grida, strani accenti in una lingua ignota. Poco prima Murgentia, come la chiamava Livio, appena aveva appresa la notizia della partenza dall’isola dell’implacabile Marcello, aveva accolto fra le sue mura i Cartaginesi, seguendo l’esempio di Ergetio, Ibla, Macella, per evitare i numidi di Muttine che devastavano le terre degli alleati dei Romani. Il pretore Marco Cornelio, rimasto in Sicilia, riuscì però a mettere ordine fra i suoi soldati con le buone e le cattive e riconquistò le città che avevano defezionato: «fra queste attribuì Murgentia agli Ispani, ai quali per senatoconsulto erano dovuti una città e il suo ager» (Liv. xxvi, 21). Era il prezzo ottenuto dal loro capo Moericus hispanus che aveva loro consegnato l’isola di Ortigia. Perciò questi aveva marciato con i suoi uomini nel trionfo romano di Marcello, davanti a lui, con una corona d’oro. Ora gli Ispani irrompevano fra le case e tutto depredavano e incendiavano, ma non si imbatterono nel tesoretto di Eupolemos. Esso aspettava un più esperto tombarolo moderno con metal detector, il geografo Strabone, dopo aver detto che i Siculi e i Morgeti, spinti dagli Enotri, passarono in Sicilia e fondarono Morgantion, scriveva telegrafico: «è verosimile che Morgantion sia stata fondata dai Morgeti. C’era la stessa città e ora non c’è. Quando giunsero i Cartaginesi, non cessarono di far male a costoro e ai Greci, resistevano tuttavia i Siracusani» (Strab. vi, 257 e 270). Strabone ignorò o volle omettere per riconoscenza verso l’ospite romano che non scomparvero per mano dei Cartaginesi.