La tavola “non tanto mascherata” di Zangrilli
Carmelo Fucarino
In una società in cui i cuochi hanno assunto l’immagine di artisti del gusto, Vissani docet, e imperversano in tutti i canali tv, a tutte le ore e in tutte le latitudini, da Roma a New York, a Pechino e a Tokio, non escluse le antenne musulmane, parlare di tavola, per di più nella sua forma esclusiva di critica estetica e in una indagine metaletteraria, può sembrare di sfondare una porta aperta. Perciò mi ha incuriosito il titolo della ricerca di Franco Zangrilli, La tavola mascherata (Sciascia ed., Caltanissetta-Roma 2011). La mia curiosità era ancor più giustificata, perché alla storia della “Buona tavola” (Hedyphagetica) ero già giunto per caso nel 1990, indagando su una citazione nell’Apologia o De magia, in cui Apuleio citava pochi versi di Ennio (Ennio buongustaio. L’arte culinaria come metafora del mutamento civile, in «Annali del Liceo classico ‘G. Garibaldi’ di Palermo», nn. 28-29-30, Palermo 1991-1993). Da lì la scoperta della valenza eversiva che ebbero le conquiste romane e quel passo strabiliante di Livio in cui si lamentava l’invasione delle suppellettili di lusso dall’Oriente assieme a forme più subdole di corruzione: Tum coquus, vilissimum antiquis mancipium et aestimatione et usu, in pretio esse et quod ministerium fuerat ars haberi coepta. Vix tamen illa quae tum conspiciebantur semina erant futurae luxuriae (Liv. 39, 6).
E il commento eccezionale di Marguerite Yourcenar: «C’est à Rome, durant les longs repas officiels, qu’il m’est arrivé de penser aux origines relativament récentes de notre luxe, à ce peuple de fermiers économes et de soldats frugaux, repus d’ail et d’orge, subitement vautrés par la conquête dans les cuisines de l’Asie, engloutissant ces nourritures compliquées avec une rusticité de paysans pris de fringale. Nos Romains s’étouffent d’ortolans, s’inondent de sauce, et s’empoisonnent d’épices» (Mémoires d’Hadrien, ed. Gallirnard, Paris 1974, p. 17). Il divertissement o forse l’apertura culturale di Ennio all’ellenismo mi spinsero a rintracciarne le fonti e naturale fu la scoperta di Archestrato di Gela e delle radici della cultura culinaria in Occidente, quella serie di cuochi, straordinari poeti epico-parodici sicelioti, ben noti a Platone (L’Artusi siceliota: Archestrato di Gela, in «Archivio storico siciliano», Serie IV – Vol. xxviii, 2002, Palermo 2002). È seguita un’indagine su tutta la tradizione culinaria romana fino a Columella e Plinio. Ma questa è un’altra storia. La premessa voleva testimoniare l’antichissima frequentazione della Sicilia con la cucina e il cibo, intesi non come gastronomia, ma come “dolce mangiare” e come paradigma dell’esistenza. L’indagine a tappeto di Zangrilli sul tema in una lettura metalinguistica dell’intera opera di Pirandello rafferma quel rapporto particolare che la Sicilia ha avuto con il cibo e la tavola. Prima che in tutti i cosiddetti gialli, apripista l’andaluso Pepe Carvalho, prosopopea dell’empedocleo Montalbano da spiaggia, un ricettario di cucina non lo nega nessuno. Ultimissimo, con un calco classico e di suono troppo “accademico” già nel titolo, La cucina del buon gusto della Agnello Hornby che non ha trascurato da emigrata di ritorno neppure le pecorelle pasquali. Tutto questo su un piano di curiosità prettamente “culinaria” e consumistica, diverso anche dalla prospettiva parodica, finemente letteraria di Archestrato. Per i tanti raffinati che amano realizzare ricette letterarie. L’analisi della tavola pirandelliana, profonda ed articolata (basta scorrere l’ampia bibliografia), avviata da Zangrilli, mostra le radici antropologiche e sociali che dettarono a Pirandello, direi imposero, tutti le varianti di approccio al cibo. E in questa galleria di temi e prospettive un siciliano, vissuto in un ambiente agro-pastorale come lo fu immerso Pirandello, non può che sentirsi parte integrante, materia vivente. Sono in genere le esperienze dell’infanzia e della giovinezza che restano impresse sulla pelle come marchiate a fuoco e questo fu il Pirandello siciliano, di un angolo il più arretrato dell’isola, pur se vissuto in una famiglia benestante. Quella rimase la sua isola, pur con le sue asperità tragiche di “maschera nuda”, come il non-luogo dello spirito, l’Eden perduto e ricreato nell’arte, attraverso i vari mitologemi (l’acqua, le messi, la vite, l’ulivo, ecc.) e i miti antichi veri (per non parlare dei Giganti della montagna, esemplare la traduzione di ‘U Ciclopu euripideo, che affonda le radici in numerosi autori sicelioti dall’inventore Filosseno a Teocrito fino a Marino e Pascoli). Certamente, abbiamo letto da giovani la miniera di sema antropologici delle Novelle per un anno, forse buona parte, ma non potevamo notare quello che un lettore esterno avrebbe potuto. Era la nostra vita e la nostra natura, la nostra physis genetica, che scorreva avanti nei personaggi e nella quotidianità dei loro gesti e idiosincrasie. E in Pirandello c’eravamo tutti interi, sangue e spirito, in ogni parola e in ogni lacerazione, eravamo i suoi eroi. Era ancora viva la percezione di quel mondo del profondo Sud, degli uomini con gli orecchini e la birrita, tra la paura del colera endemico e le fucilate dei banditi, pure naturali nonostante il permanente stato d’assedio savoiardo. Anche dopo la sua esperienza universitaria ballerina (Palermo, Roma, Bonn), a contato prima con il professore Monaci, avvocato convertito alla filologia romanza e poi alla “Storia comparata delle lingue e letterature neolatine”. Poi il salto nella lingua diversa, aspra e gutturale, nella cultura di Hegel e di Goethe e quella conclusione degli studi offerta votiva a Girgenti che aveva nel cuore, che avrà sempre nella mente e nell’anima anche fra i successi dei teatri nazionali ed esteri. Perciò sintomatica quella stranezza di tesi in tedesco, Laute und Lautentwicklung der Mundart von Girgenti. Parentesi: di contro la ricerca insuperata dei tre volumi di Gerard Rohlfs, Historische Grammatik der italienischen Sprache und ihrer Mundarten, Bern 1949-54 (trad. ital. Torino 1966-69). Perciò le minute analisi, sorprendenti per Franco Zangrilli, giungono normali per l’antropologia di un siciliano. È la vita che si palesa anche nella tavola, la vita in tutte le sue complesse passioni. Perciò merito a Zangrilli che ha analizzato tutti i momenti e le sfaccettature del cibo e del mangiare in Pirandello. Esso può essere semplice invito che può nascondere la bulimia o l’oscena obesità, in un “avvertimento” e un “sentimento del contrario”, o può essere addirittura elemento primigenio e ancestrale della “sagra”, ma può trascendere nel peccato o più in profondo nei “sapori della vendetta”, può diventare “eccesso di cibo” oppure “ebbrezza apparente”, fino a trasformarsi in “belva divoratrice” nel meta-artistico o nell’intertestuale, ma anche può disegnare socialmente la “miseria della fame” dell’uomo, «porco sociale che sa anche simulare la propria povertà», e assolversi nell’evangelico “pane quotidiano”, oppure diventare paradigma esistenziale nel “banchetto della vita”, assai amaro e salvato solo dall’ironia, perché in ogni evento allegro «il personaggio pirandelliano è sempre un forestiero, un ritardatario, un sofferente» (p. 122). Nel complesso possiamo dire con Zangrilli: in Pirandello «il cibo vuol essere uno dei tanti elementi che approfondisce la disperazione del personaggio, lo precipita in uno stato di crisi più cupa, diventa una forza misteriosa o una tentazione che lo accattiva, lo domina e lo rovina in tanti modi» (p. 44).