Rigoletto, «l’uomo son io che ride»
(Carmelo Fucarino)
Dopo un’Aida da dimenticare assolutamente e della quale non contava parlare, l’ennesima ripresa del testo verdiano più celebre e rivisitato in questi passaggi obbligati delle stanche genuflessioni commemorative, non facevano presagire niente di buono. Certo si era arruolata la diva nostrana, la bella e brava Desiré Rancatore, per cui ci si aspettavano ovazioni da stadio e richieste di bis e ter. Pur tuttavia ancor più si temeva un altro tonfo, dal momento che dopo gli strascichi della presidenza Cognata e la gestione commissariale, anche se di alto livello, annunziavano gravi temporali in vista. Si sentono ancora in questi giorni tuoni e fulmini di cancellazione dal tabellone di opere già pagate dagli abbonati a causa dei tagli dei fondi regionali. Ma osanna alle piogge benefiche su tanti piccoli enti e club e associazioni di non pubblica utilità e di “elettive affinità” con approvazione grillina. Lo spettacolo invece ha superato ogni aspettativa per una felice sorpresa almeno per me che non seguo e sconosco le cronache e i gazzettini teatrali. Si sa che l’opera, la prima della cosiddetta “trilogia popolare”, vide le scene del delizioso teatro La Fenice di Venezia l’11 marzo 1851. Da allora non c’è stato teatro che non l’abbia tenuto in cartellone a rotazione negli anni, dopo che, ritenuta, come tutta la trilogia, ingenua e grossolana, rispetto al magmatico e grandioso Wagner, è stata rivalutata da Igor Stravinskij per la sua “genuina invenzione” rispetto alla “vociferazione” della Tetralogia.
Verdi ne aveva preteso il cambiamento di registro e l’adozione di questo originale modulo narrativo, con la minaccia, che, se non si adottava, non poteva «più farvi musica». Alla centralità del Roi s’amuse del dramma di Victor Hugo, perciò a lui censurato dalla monarchia che non accettò un re cinico e dovette contentarsi di un duca di Mantova, Verdi volle fermamente che in posizione chiave si sostituisse il re con il buffone nella sua opera, che emblematicamente titolò in principio La maledizione, «così terribile e sublime al suo re libertino», «dramma originale, potente». Proprio con quel finale lamento sul corpo esanime si chiude il sipario: «Ah! la maledizione!». E a proposito del libretto richiesto a F. M. Piave, disse, per difendere il capovolgimento della tipologia dell’eroe protagonista, «bellissimo il personaggio estremamente deforme e ridicolo e internamente appassionato e pieno d’amore». E ne venne fuori un’atipica bellezza, quella sconvolgente dell’interiore purezza d’animo in un corpo deforme, sovvertendo tutti i canoni estetici che dai tempi di Fidia e di Apelle si era rappresentato nella statuaria con l’immagine dell’eroe nella forma dello splendore apollineo. In questo stravolgimento della tradizione estetica il dramma dell’amore paterno stuprato e vilipeso e il crudele orrore della vendetta beffata dal destino trovano una intensissima potenza lirico-drammatica, inattesa in un tema che era incentrato su una burla crudele. In questo contesto gli equilibri di tonalità erano assai difficili, si correva il rischio che la tragedia abissale di un cuore lacerato dal dolore e dalla vendetta (la sconvolgente parola d’ordine gridata da Verdi in molti suoi drammi e qui insistita e teatrale in Sì, vendetta, tremenda vendetta), scadesse nel ridicolo dell’opera buffa. Se non si fosse trovata la giusta misura nella miscela di parole e musica si poteva far ridere con quel manichino travestito da buffone, con tutti i segni tipici del nano deforme. Per inciso, è stato perciò subito notato dal pubblico di intenditori e non che il nostro buffone di questa performance non appariva con i suoi segni scenico-teatrali distintivi, non aveva la gobba posticcia e il naso grosso a patata e la casacca da clown, se non in un travestimento fuori scena, in un cambio di soli abiti, senza il cuscino per gobba. Irrideva il Coro: «Perduto ha la gobba? non è più difforme?». Dicevo, se si fosse oltrepassata la misura poteva scadere nei limiti dell’opera buffa mozartiana e rossiniana, il tragico dell’”umorismo” pirandelliano poteva portare alla risata. Lo stesso rischio che corse un altro grande baritono (allora Caruso, diretto da Toscanini), il Tonio-Taddeo di I pagliacci di Leoncavallo, che si concluse con il grido anche qui tragicamente beffardo: «La commedia è finita». Purtroppo la direzione orchestrale in qualche punto ha assecondato questi passaggi, dando un tono più andante alle modalità verdiane, in cui le consuete altalene dal basso al fragoroso di ottoni e piatti che esplodono, sono risultati troppo plateali. C’era qualcosa che non combaciava nella realizzazione musicale. Così qualcosa mancava, perché turbasse l’anima, nell’approccio di Questa o quella per me pari sono, o nella perfezione di innesto musica-parola di La donna è mobile, specificatamente elogiata da Stravinskij e che riesce sempre a commuovere, come se si ascoltasse per la prima volta. Grande, al di fuori delle simpatie del pubblico l’immedesimazione della Rancatore in Gilda, nella sua città natale, dopo tredici anni di frequentazione con il personaggio (Tutte le feste al tempio). Applausi meritati per il “malvagio” Andrea Mastroni. Ma veniamo alla sorpresa che ci ha fatto uscire dal teatro pienamente completi, con una sensazione di avere percepito sulla pelle la grandiosità dell’arte verdiana. È stato quel grosso grasso (?) greco di Kalamata, il sorprendente Dimitri Platanias, senza orpelli scenici, ma con una voce divina. Ancor più mi ha stupito la sua biografia, che comincia con lo studio di chitarra classica e una comune laurea in lingua e letteratura inglese, il debutto nel 2004 all’Opera di Atene e in Italia nel 2007 e l’approdo alla Royal Opera House Covent Garden nell’aprile del 2012. Certo, è mancato quel tocco di maliziosa ironia che è nella natura del buffone verdiano, ma la voce… La difficoltà del teatro verdiano è proprio in quella partitura del baritono, che egli amava tanto da farne un protagonista al posto del bel tenorino, proprio per il colorito possente, cupo, scuro, ma che è oggi difficile o impossibile trovare. Forte in Cortigiani, vil razza dannata. Chi ricorda Aldo Protti, il vero volto del gobbo, oppure il divino Tito Gobbi, solo nel nome, o il campione di stile Renato Bruson, per citare solo gli italiani e senza fare offesa ai tantissimi di altri tempi, fino a Leo Nucci, per qualcuno non adatto al ruolo? Tanti auguri e ad maiora! (per rivederlo, Rigoletto, film di David McVicar del 2012).