AIDA

(Salvatore Aiello)

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L’omaggio verdiano del Massimo di Palermo ha riproposto Aida con un nuovo allestimento assai minimalista e sobrio che si è giovato delle scene di Alessandro Camera, della regia di Elisabetta Marini e dei costumi di Carla Ricotti puntando più ad esaltare le passioni, i tradimenti, i rimpianti dei tre protagonisti e lasciando un po’ da parte lo sfarzo e l’imponenza tradizionale. Quest’opera documento alto della maturata arte del bussetano che in una seducente sintesi coniuga apparati storici e coreografici di estrazione meyerbeeriana con l’eterna vicenda degli amori non corrisposti, rivela ancora una volta la sua fervida concezione che tutto ciò che divide, che non si realizza su questo mondo, può, finalmente, trovare risoluzione e rasserenamento in un cielo altro. La sua rappresentazione se non è un kolossal delude attese e aspettative allora tutto dovrà essere affidato alla magia della musica. Conosciamo bene l’impegno che Verdi assunse dopo un’iniziale perplessità, a risolvere nel canto e nella parola scenica la sua idea portante affidando soprattutto, per l’edizione scaligera del ’72, ruoli a cantanti illustri, una per tutti Teresa Stolz.

 

Protagonista sulle nostre scene era il soprano cinese Hui He. Diciamo subito che non è un’Aida di lusso poiché la tradiscono una voce e una interpretazione poco sognanti ma non possiamo non riconoscerle che in tanta mediocrità appare oggi elemento credibile non fosse altro che con una vocalità di lirico pieno riesce a dare in qualche modo anima alla schiava etiope offrendo una buona prova di sicuro bagaglio tecnico che le consente legature, smorzature e piani di rilievo. Con lei la robusta Amneris di Marianna Cornetti, voce brunita, densa ma latitante sul piano della regalità prediligendo accenti e furie domestiche che hanno messo a repentaglio la resa finale. Vestiva i panni di Radames il tenore spagnolo Jorge De Leon talvolta in consonanza col personaggio dimidiato tra potere ed amore, quasi inerte il suo fraseggio, non sempre capace di dare maggior slancio, forse per alcune mende tecniche, al suo canto poco appassionato frutto solo di una vocalità corposa e in qualche modo squillante. Non esaltante la prova dell’Amonasro di Alberto Mastromarino di solida vocalità e volume la cui resa ha evidenziato registri vocali non sempre omogenei che ci hanno lasciato talora perplessi. Stentatamente credibili il Ramfis di Alexei Tanovitski e il Re di Gianluca Breda per timbri anonimi e modesta linea interpretativa che ne hanno fiaccato l’autorevolezza. Completavano il cast Angelo Villari (Un messaggero) e Valeria Sepe (Una sacerdotessa). A sostenere questo palcoscenico Stefano Ranzani che con piglio sicuro e determinato, animato da frequentazioni verdiane notevoli e dalla voglia di cavare il meglio dagli esecutori dava risalto, ove possibile, alle indicazioni della partitura esaltando con sonorità dense e significative i momenti epici per poi scolpire ed animare con fraseggi articolati, luminosi e chiari quelli più teneri e sentimentali dell’intricata vicenda. Accettabile la prova del coro istruito da Piero Monti. A concorrere al poco entusiasmo della serata anche le coreografie di Michele Merola che offrivano una prova sbiadita per un corpo di ballo dagli esiti in genere modesti.

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