Va’, pensiero! Oggi ancor più
(Carmelo Fucarino)
Scusate l’immagine, ma non ne ho trovate di nuove nell’area stampa del sito del teatro. Ma non cambia nulla, è evidente, si tratta dello stesso allestimento (stessi regia, scene e assistente, costumi e luci) di tre anni fa, allora nuovo progetto. Oggi nel solenne centenario dell’accoppiata Wagner – Verdi, è stata scelta come prima verdiana nell’anniversario della nascita del nostro bardo nazionale un’opera di scarso rilievo, un fiacco spettacolo che tre anni fa non giunse a scaldare i cuori e fu presto dimenticato. Ragioni di che per questa inutile ripresa? Forse finanziarie? O di mercato?
Dopo il fracasso wagneriano e gli spunti di critica e di riflessione per le ardite innovazioni, la ripetizione di un fiasco già visto non poteva che sortire la noia che è circolata in sala, preparata dalle consistenti defezioni degli abbonati. Per dare smalto ad un fallimento non basta cambiare semplicemente direttore, con uno tosto che trascina con le braccia e le dita ad uncino l’orchestra dove lo porta il cuore. Così come i pur bravi cantatori lasciati all’iniziativa delle loro originali improvvisazioni canore. Perciò il pubblico entusiasta si è scalmanato al solito pezzo strappalacrime e leghista e non si poteva non concedergli la soddisfazione del bis. Non si è trattato neppure del ritorno ferreo al peplum, dopo le disadorne e raccapriccianti nudità sceniche dell’ultimo regista. Vada pure l’allucinante fulgore di luci e colori, anfiteatri rotanti e abatjour cilindrico adorno di cuneiformi che si sollevava a scoprire il letto di stordenti colori. Bisognava altro per dare pathos al popolo oppresso e alle masse derelitte, maggiore dinamicità, sentimento di essere popolo che lotta. Peccato per tanta bella musica spesso gridata! Già nella prima scaligera del 9 marzo 1842 fu evidente il salto al Settecento con questa storia di un re dal nome troppo pomposo e perciò reso più familiare dell’originale e completo Nabucodonosor. Tra l’altro è un personaggio monocorde che minaccia continuamente stermini e sfracelli (Vittime tutti – cadranno omai! – Fa dei vinti atroce scempio). Scriveva Massimo Mila che l’opera «non è il dramma di personaggi, bensì uno statico affresco corale, dove il più alto livello di vita scenica e di liricità è raggiunto senza dubbio dalla massa del popolo ebraico». Questo ricorso ai grandi corali era la chiave politica di un giovane che era trascinato dai fervori patriottici di un’Italia, mai esistita e mal nata, che nel nome di V.E.R.D.I spiegò la sua origine programmata di annessione savoiarda. Da allora il dibattito si è sviluppato e si dilunga su Italia unita o regionette da barzelletta. Perciò il mesto, nostalgico, larmoyant, sussurrato corale è stato “strattonato” come inno nazionale dell’Italietta delle province leghiste.
Con tante pace di artisti e orchestrali, che hanno dato il meglio di se stessi, una divagazione letteraria.
Eppure il Salmo 137 aveva altre profondità e risonanze interiori:
«[1] Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
[2] Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
[3] Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
"Cantateci i canti di Sion!".
[4] Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?».
E allora Teognide di Megara:
«Come può il vostro cuore sopportare
Di cantare al ritmo dell’auleta?
Dalla piazza appare il confine della terra
che nutre con i suoi frutti chi nei conviti
cinge purpuree corone sui biondi capelli.
Ma su, scita, rasa la chioma, cessa la baldoria,
piangi il suolo profumato che rovina» (vv. 825-30).
E ieri l’altro con diversa profondità Quasimodo, Alle fronde dei salici (da Giorno per giorno)
«E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
con i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento».
Per risentire il lamento accorato:
«Arpa d’or dei fatidici vati,
Perché muta dal salice pendi?
Le memorie nel petto raccendi,
Ci favella del tempo che fu!».