NABUCCO POCO RASSICURANTE PER L’ANNO VERDIANO

( Salvatore Aiello)

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Dopo l’omaggio wagneriano con le prime due giornate della Tetralogia, semaforo verde per Giuseppe Verdi nel bicentenario della nascita che trova il Massimo di Palermo impegnato a proporre momenti salienti della produzione del bussetano con Nabucco, Aida, Rigoletto e due concerti verdiani che a maggio vedranno sul podio Stefano Ranzani con i solisti Anna Pirozzi, Amarilli Nizza, Giorgio Berrugi, Aquiles Machado, Dalibor Jenis, Claudio Sgura. A siglare questi appuntamenti, la mostra Verdi al Massimo curata da Sergio Troisi con l’allestimento di Roberto Lo Sciuto e il coordinamento di Marida Cassarà; importante testimonianza dell’archivio del teatro che espone per i cultori bozzetti, figurini, locandine e costumi inerenti alle produzioni verdiane dagli anni ’50 ai nostri giorni.

Si è cominciato quindi con la riproposta di Nabucco la cui regia ed allestimento scenico risalgono a tre anni fa. Terza opera di Verdi costituisce il primo luminoso traguardo della sua produzione dopo il tonfo di Un giorno di regno; si impone con rinnovato successo per la carica di umanità, per il rinnovamento degli schemi del melodramma del primo Ottocento ma soprattutto per la novità di ritrovarvi le memorabili figure del suo teatro che grandeggiano per il fascino delle risolte caratterizzazioni sullo sfondo epico dei grandi affreschi corali. In altri termini è l’opera che ci dà a tutto tondo un’idea nuova della capacità del compositore di creare caratteri dalla forte individualità e carica psicologica. Zaccaria si avvarrà del profondo prestigio morale e dell’autorevolezza ma soprattutto si imporrà per nobiltà e caratura michelangiolesca. Nabucco inaugurerà la schiera dei personaggi malvagi; baciato dalla provvida sventura, si convertirà e da oppressore finirà con lo sposare la causa degli oppressi. Completa la triade la virago Abigaille lacerata tra rabbia e rimpianto della felicità perduta.

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George Gagnidze interpreta Nabucco

Gli interpreti lirici si dividono in cantanti ed artisti;l’altra sera ci è capitato di ascoltare un cast di cantanti che si sono solo limitati, con sufficiente resa, a risolvere le non poche difficoltà che i ruoli richiedono.Sappiamo perfettamente che affrontare quest’opera è un’impresa assai difficile, non a caso la storica Giuseppina Strepponi ci perdette la voce, e che oggi purtroppo domina la concezione che tutti possono cantare di tutto, ma non è così, poiché Verdi chiede spiccata personalità interpretativa, spessore vocale, fraseggio articolato, mordente, emissione sicura, parola scenica chiara e incisiva, temperamento acceso e non ultimo fuoco, tanto pathos per riconsegnare le schegge dell’anima e dei caratteri dei personaggi. Non ci siamo sentiti coinvolti né esaltati da prove senz’altro però dignitose. George Gagnidze di saldo dominio vocale non sempre è riuscito a tratteggiare la cifra del re babilonese allucinato e dimidiato tra la violenza del potere e tenerezze paterne. La sua interpretazione, nonostante il notevole approccio, risultava a tratti convincente mostrando al meglio la sua corda sentimentale apprezzabile soprattutto nella perorazione “Dio di Giuda”. Anna Pirozzi nell’impervia parte di Abigaille, la cui vocalità conosce tremendi sbalzi di registro, dal do acuto al do grave, con cambiamenti frequenti di colore, ha dato prova delle sue innate ed istintive capacità naturali mettendo soprattutto in luce la zona acuta sorretta dal forte temperamento. Poco ieratico lo Zaccaria di Luiz Ottavio Faria che però si è giovato di una organizzazione vocale corposa ed appassionata. Di buon livello la presenza di Gaston Rivero che ci ha regalato un Ismaele generoso, brillante per smalto vocale ed emissione morbida. Un apprezzamento senza riserve va ad Annalisa Stroppa nei panni di Fenena che si è distinta per volume, timbro suadente ed elegante linea di canto. Completavano il cast l’efficace Gran Sacerdote di Manrico Signorini, l’Anna di Stefania Abbondi e l’Abdallo di Mario Bolognesi. Un po’ in ombra inizialmente il coro istruito da Piero Monti e sopra le righe che però ha saputo emergere per tinte nostalgiche e malinconiche nel Va’ pensiero per tradizione bissato. La partecipe direzione di Renato Palumbo che ci aveva offerto una sinfonia di bel respiro ed equilibrate sonorità, via via ci lasciava perplessi per altalenanti momenti di esagerate accensioni e di rallentamenti forse dovuti alla voglia di seguire con scrupolo il palcoscenico che non sempre rispondeva alle sue attese. Senza particolari guizzi la regia di Saverio Marconi, ripresa da Alberto Cavallotti e che si giovava delle scene di Alessandro Camera; un incombente menorah al primo atto e soprattutto un invadente cilindro che di volta in volta rivelava ambienti e situazioni cui faceva corona un anonimo anfiteatro accogliente personaggi e masse, erano i pochi elementi che riconducevano all’ambientazione dell’opera. Adeguati i colorati costumi di Carla Ricotti così pure le luci di Roberto Venturi.

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