Il coraggio della memoria

(Raimondo Augello)

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Nel panorama variegato della musica antagonista degli anni ’70 un posto di rilievo lo occupa una formazione di ragazzi milanesi, gli Stormy six, autori di parecchie raccolte e protagonisti di una storia lunga e per certi versi travagliata. Nati nel 1966, gli Stormy six sono tra i primi esponenti del rock italiano, non esenti da alcune venature psichedeliche (in stile Pink Floyd) e country. Ben presto, però, la ricerca artistica del gruppo si rivolge verso le tematiche politiche di forte denuncia, dando vita ad una singolare fusione stilistica tra la canzone politica e il cosiddetto “rock progressivo”, corrente della musica rock nata in Inghilterra alla fine degli Anni sessanta così chiamata per il fatto che essa rappresenta un’evoluzione del semplice rock, tendente a realizzare un livello di maggiore complessità e varietà compositiva, melodica, armonica e stilistica con l’obiettivo di dare alla musica una finalità artistica che la renda un’opera d’arte; si trattava di un genere colto, insomma, arricchito da un continuo richiamo alla musica classica e al jazz, tale da trasformare il rock da strumento di semplice svago in arte.

Dopo avere vinto nel ’66 il primo festival della canzone studentesca al Palalido di Milano e avere mosso i primi passi nei locali più noti del capoluogo lombardo (Piper, Voom voom, Bang bang) il gruppo dà inizio alla propria attività discografica e si apre anche a collaborazioni internazionali, accompagnando, tra l’altro, i Rolling Stones nel 1967 in occasione della loro prima tournée italiana. Nel 1972 gli Stormy six pubblicano “L’unità”, un album che, attingendo a canti di lotta nazionale e internazionale e a canzoni diffuse tra il Movimento Studentesco, presenta alcuni brani che offrono una rivisitazione in chiave fortemente critica delle vicende che hanno portato all’unità d’Italia. L’uscita è salutata con entusiasmo dalla critica, che gratifica “L’unità” del riconoscimento di migliore lavoro prodotto da un gruppo italiano per quell’anno. La forte denuncia presente in alcuni brani, tuttavia, fa sì che l’album incorra nel veto della RAI, la cui commissione d’inchiesta censura tutte le canzoni. Da questo momento la storia del gruppo si identifica con una serie di veti imposti dalla RAI e di incomprensioni con la stessa casa discografica, l’Ariston Records, incapace di comprendere la forza dirompente e innovatrice degli Stormy six, incline piuttosto a tentare di imbrigliarne la vena polemica entro il più rassicurante e remunerativo modello di una musica commerciale del tutto estranea all’ indole creativa del gruppo. Non mancano, tuttavia, anche gli attestati di solidarietà provenienti da vari campi del mondo dell’arte, in Italia e non solo. Ripercorrere tutte le tappe della storia degli Stormy six sarebbe difficile; per amore di sintesi qui basti dire che contestualmente alla maturazione dell’impegno civile e politico il gruppo milanese si apre alla sperimentazione con un occhio di particolare attenzione al teatro, offrendosi a parecchie collaborazioni, tra cui quella con il regista Gabriele Salvatores, di cui curerà la parte musicale del Pinocchio Bazaar, musical portato in scena dalla compagnia del Teatro dell’Elfo di Milano. Apprezzamenti di grande rilievo provengono dalla critica di tutta Europa: dalla Svezia, la Germania, l’Inghilterra, dalla Spagna, dalla Francia, dall’Austria ed altri ancora: tutti paesi nei quali gli Stormy six si trovano ad operare. Per quella diffidenza con cui il gruppo veniva visto in Italia, tuttavia, quei giudizi così apertamente lusinghieri stentano ad arrivare in quegli anni sino al nostro Paese, relegando la conoscenza del gruppo a ristrette cerchie di intellettuali e agli ambienti della protesta studentesca. Invitati al festival della canzone politica di Berlino Est nel 1979 e nel 1980, divengono un vero “caso”, poiché la loro musica appare, per i musicisti e gli intellettuali dissidenti della Germania comunista, espressione paradigmatica della posizione critica assunta dal PCI verso il blocco sovietico. Un gruppo, dunque, la cui sorte pareva dovesse essere quella di risultare scomodi a qualsiasi forma di potere costituito. Gli Stormy six si sciolgono nel 1983 per poi riunirsi dieci anni dopo; dal 1993 riprendono la loro attività tenendo ogni anno parecchi concerti e trovando spazio anche su Radio 3. Tra le canzoni presenti nell’album “L’unità” ce n’è una, che oggi presentiamo, dedicata a Pontelandolfo, cittadina del beneventano in cui all’alba del 14 agosto del 1861 si consumò forse il peggiore degli eccidi che la contrastata storia del processo unitario italiano ha scritto. Una pagina colpevolmente rimossa dai nostri libri di storia e ancora una volta raccontata solo dal linguaggio dell’arte.

 

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Pontelandolfo

Tra Pontelandolfo e Casalduni qualche giorno prima di quella infausta data un manipolo di quarantacinque soldati (un ufficiale, quaranta bersaglieri e quattro carabinieri) era caduto in un’imboscata tesa dalle forze partigiane, i cosiddetti “briganti”. Condotti in paese i militari furono uccisi. La rappresaglia non tardò: il generale Cialdini, comandante in capo delle truppe piemontesi, ordinò che di quei paesi “non rimanesse pietra su pietra” e incaricò il maggiore vicentino Pier Eleonoro Negri di portare a compimento l’operazione. All’alba del 14 agosto una colonna di 500 bersaglieri entrava a Pontelandolfo mentre la gente era immersa nel sonno. Erano per lo più vecchi, donne e bambini, poiché buona parte degli uomini atti alle armi erano sui monti a condurre la guerriglia e parecchi si erano allontanati probabilmente avendo avuto già sentore della violenza della rappresaglia che si preparava. Le case furono tutte incendiate impedendo a chi si trovava dentro di uscirne vivo, le donne violentate selvaggiamente, furono compiute efferatezze indicibili (oggi abbiamo anche i nomi e cognomi di molte delle vittime) la chiesa del paese fu profanata e gli arredi sacri trafugati: l’indomani nella piazza principale di Benevento i bersaglieri avrebbero allestito un mercatino improvvisato con la refurtiva, in cui il parroco di Pontelandolfo, sopravvissuto all’eccidio, andò a riscattare l’ostensorio. Due fratelli noti per le loro idee liberali che avevano tentato di intercedere a nome del paese presso gli ufficiali piemontesi furono uccisi senza che venisse loro offerta la possibilità di esprimere le proprie ragioni. Qualche anno fa la Pro loco del comune di Delebio, in provincia di Sondrio, ha pubblicato il diario di Carlo Margolfo, un bersagliere cui toccò la ventura di prendere parte a quella operazione di rappresaglia. In esso, a pagina 53, si legge: “Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava… Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava”.  Non esistono stime ufficiali sul numero delle vittime di quella rappresaglia, ma l’ipotesi degli storici va da un minimo di quattrocento, ad una cifra che più verosimilmente supera il migliaio (Pontelandolfo contava infatti oltre quattromila abitanti). Comunque stiano le cose, è chiaro che se anche volessimo accettare la cifra per difetto (quattrocento) ci troveremmo in un rapporto di dieci civili per ogni soldato caduto, lo stesso criterio adottato dalle truppe tedesche alle fosse Ardeatine per vendicare l’attentato di via Rasella.  Qualche giorno dopo, di fronte a tanto scempio, il deputato Giuseppe Ferrari, milanese d.o.c. (proprio come gli Stormy six), dopo essersi recato sul posto per verificarne de visu lo stato di desolazione, fu l’unico durante una seduta parlamentare a prendere la parola per denunciare i fatti accaduti; il suo intervento, al cospetto di un Parlamento in cui c’erano anche parecchi che sghignazzavano, si concluse con queste parole di rassegnazione: "Signori, se non vi accorgete che state sguazzando nel sangue, allora non so cos’altro dirvi!". Severo fu anche il giudizio espresso dalla stampa e dalla politica estera: il Parlamento inglese non mancò di esprimere il proprio orrore per quanto verificatosi.  Durante i festeggiamenti per il centocinquantenario dell’unità d’Italia, Giuliano Amato, presente in visita a Pontelandolfo, ha ricordato l’eccidio porgendo le scuse ufficiali a nome del governo italiano alla comunità del paese, mentre il sindaco di Vicenza, la città da cui proveniva Eleonoro Negri, il boia che guidò l’operazione di rappresaglia, si è inginocchiato dinanzi alla lapide scoperta in memoria di Concettina Biondi (adolescente stuprata e poi uccisa) e di tutte le altre donne vittime di quella cieca follia. Peccato che ci siano voluti centocinquanta anni per farlo, peccato che sui testi ufficiali di storia patria il nome di Pontelandolfo risulti ancora sconosciuto. Peccato che non esista ancora un giorno della memoria che inviti alla riflessione su questo e i tanti altri orrori che si accompagnarono al processo unitario. Peccato che ancora un regista del nostro cinema non abbia deciso di raccontare in un film di Pontelandolfo, magari emulando l’israeliano Ari Folman e il suo coraggio nel rievocare alla coscienza dei suoi connazionali i fantasmi di Sabra e Shatila in Valzer con Bashir. Merito dunque agli Stormy six che irridendo alla retorica ufficiale e alle esigenze commerciali hanno avuto il coraggio di raccontare (loro milanesi) i fatti accaduti in quel lontano paese nel giorno di quel lontano 1861, offrendo un monumento di virtù civile e artistica di perenne memoria

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