Se Palermo onorasse i suoi uomini
(Carmelo Fucarino)
Così se ne è andato un altro simbolo della Palermo della mia giovinezza il grande Vito Mercadante. L’età era rispettabile, classe 1920, portati con baldanza e con sicura vivacità di intelletto. La frenesia della vita cittadina aveva diradato i nostri incontri e i nostri colloqui su questioni ancora culturali. L’ultimo incontro diretto, l’onore di averlo avuto nell’aula del Consiglio di Palazzo delle Aquile per la presentazione del mio terzo volume Stratigrafia del comune di Prizzi come metafora della storia dell’Isola, vol. III, Il Novecento, ed. Comune di Prizzi. Esattamente un anno fa. Ancora qualche mese addietro ci eravamo sentiti: cercava notizie ed informazioni su una casa editrice per altri suoi nuovi progetti in cantiere. Da quando aveva lasciato la Scuola, la sua vita si era spesa a tempo pieno nel riordino delle sue carte e in progetti di opere, nella riedizione delle passate. La nostra conoscenza era antica e risaliva agli anni Settanta, ma non certo antichissima.
Non c’è stato neppure tempo e occasione di conoscere la sua formazione culturale, seppi senza successivi approfondimenti del suo discepolato al Garibaldi ove mi ritrovai insegnante, ma non parlammo mai di quegli anni della sua frequenza, intorno al 1936 e delle sue frequentazioni ed esperienze.. Quando si ha la vita davanti non si pensa a conoscere le nostre storie personali. E mi rammarico di non averla indagata e scoperta. Poco so pure della sua università fiorentina e della sua militanza antifascista e partigiana. Lo conobbi e rimane per me il Preside di frontiera, quel signore dai capelli brizzolati, fine e gentile, con un accento imprescindibile dialettale, ma indefinibile. E la scuola media delle sue battaglie e dei suoi impegni sociali, quella scalinata della Antonio Ugo, tra palazzoni anonimi, oasi di accoglienza e di acculturazione. Erano i ragazzini della zona del budello di via Perpignano, da un lato un borgo di casette paesane, dall’altro agrumeti che si avviavano a divenire palazzi. E lui che, passato dall’altra esperienza di un paese simbolo, la Montelepre dei miti e delle storie di eco mondiale, seguiva la vita e le esperienze di questi ragazzini che conoscevano talvolta la disoccupazione e la miseria, tal’altra le assenze dei genitori per vacanze forzate. Sul suo tavolo le caramelle, sul suo volto il sorriso e l’accoglienza. L’educatore! Ma non solo, in quelle aule disadorne e in un caseggiato che si stendeva in largo con un solo pianterreno, la palestra dello sfogo e dello svago. Io lo conobbi lì. Ma anche e perché lì aveva fondato e lì organizzava e preparava dibattiti e azioni la sua Associazione Antimafia. Quando conobbi tale sua attività si mordeva il freno, montavano le critiche e i distinguo. Non è che avesse fatto tanto bene e chiarezza l’uscita di Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”, come a voler dare patenti di congruità e di sincero impegno. Certo molti avevano tirato acqua al proprio mulino. Ma l’antimafia non poteva essere monopolio di chi aveva scritto Il giorno della civetta, né avere maestri che assegnano voti e patenti. Si lavorava in quel contesto, un ambiente scolastico difficile, anche per colpe della politica, fra ragazzi “destinati”, che portavano il coltello invece della penna, e anni di antimafia “discussa” e quasi rinnegata, da non parlarne per non passare per professionista (Storia e antologia della mafia, Palermo 1984, Storia della nuova mafia, Palermo 1986; Breve storia della mafia, Palermo 1987; Sottocultura mafiosa, Palermo 1987.). E c’erano poi le serate culturali, gli incontri letterari in quell’aula magna di quartiere border line, ove la mattina si cercava di fare altri “Italiani” e il pomeriggio si discuteva di poesia e di narrativa, ma anche di storia e di sociologia, di lotta alla mafia e di riforme. Lì, in quella fucina continua di nuove prospettive e progetti, conobbi Sarino Costa, allora ispettore, dopo essere stato il Preside del Liceo Garibaldi, ove avrei insegnato, lì lo conobbi e fui ammaestrato dalla sua dottrina, lì entrai nel vivo di una riforma della scuola, mai venuta e mai attuata, fra tanti progetti di sperimentazione rimasti identici per anni. E i suoi scritti, quel mitico volume di ventiquattro racconti, La terra del caos, edizione del nobile Vittorietti del 1978, che continuò sempre ad elaborare e ad affinare (Nuova Ipsa, 2005), la Sicilia che aspettava una rinascita, vista con l’occhio disincantato di chi nutriva qualche dubbio, fino all’ultimo del 1998, Se la speranza non muore … (La Zisa). Quello scorrere del suo periodare in immagini e situazioni della nostra terra, sulla linea meridionalistica e sociale, che tanta linfa ha dato alla letteratura nazionale. Ma questa volta non dalla Milano che già allora divorava il sudore e l’energia dell’isola per finanziare le sue industrie, non alla Verga o alla Capuana, per una terra vista attraverso il velo di Maia, ma da qui, in questa terra che si consumava nella rapina di dentro e di fuori. Era la nostra campagna, erano i nostri uomini visti da chi stava in mezzo a loro, con tante delusioni e lo spirito combattivo. E pure la passione nel riscoprire e nel divulgare le poesie di un altro grande Vito Mercadante, classe 1873, il poeta del dialetto di Prizzi, con il Focu di Muncibeddu e Lu Sissanta, del 1910, fino a Mastru Mircuriu (1926-27). Aveva sempre patrocinato tutte le iniziative per raccogliere quello scrigno di saggezza dialettale, poesia sociale e politica di un uomo che era stato sindacalista in anni in cui si rischiava a farlo (La ferrovia ai ferrovieri, Palermo, 1911). E ancora pensava ad aggiungere altre notizie, a proporre altre edizioni del suo amato antenato. Per lui aveva promosso il busto e la titolazione della Biblioteca Comunale di Prizzi. Perché al paese era estremamente legato, mi diceva di sentirsi prizzese, anche se non vi era nato. Per lui l’intelligenza, la genialità era “prodotto dell’aria di Prizzi” e portava vanto con tutti di queste sue origini, dei suoi antenati magistrati. La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile non solo per il suo paese adottivo. Ma anche per la cultura palermitana della quale per mezzo secolo è stato animatore e protagonista. Un giornale nazionale nella sezione cittadina gli ha dedicato un trafiletto anonimo di spalla, attento ad altre realtà di cronaca spicciola, ma di colore, di cicalecci e pettegolezzi politici.
PS. Oggi il citato quotidiano commemora le memorabili giornate del “Gruppo 63” con titoletti attraenti da spiritosaggini da gossip, in prima “la rivoluzione fra liti e sbornie”, il “Pantalone” pagante (alla siciliana?), barone Agnello mischiato con il Gattopardo, e gli effimeri furori, i poveracci siciliani, “Perriera intimidito, Di Marco infuriato” per la banalità di un titolo e la leggerezza di un resoconto ammiccante e alludente, troppo umano, diremmo, troppo umano. A terminare con la Inge invasata «che conciona fin sulla scaletta dell’aereo». E sulle scommesse e sui progetti rivoluzionari? Una casinata di rivoluzionari all’italiana che hanno famiglia e mangiano a casa e che oggi occupano “le poltrone chiave dell’industria culturale”. Ma chi sono? Eco che si è concesso, capro espiatorio, all’intervista, e gli sono rimaste di storiche e culturali le «discussioni animate e grandi le bevute»? Altra l’intervista ad Eco sull’allegato nazionale.