Das Rheingold o auri sacra fames

(Carmelo Fucarino)

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È verbo consolidato che sul palcoscenico di un teatro la parola d’ordine è “spettacolo”, da quando quel luogo particolare, creato su un pendio per “contemplare con stupore” (theáomai) una “passione” rituale di un dio, divenne semplicemente spazio per godere della imitazione di un mito-racconto attraverso ypokritái, “attori”. E ciò non avvenne molto tardi. Se ancora con Eschilo lo sgozzamento nel bagno del dio-toro Agamennone scandagliava i profondi misteri dell’Ur-grund attraverso immense coralità, Euripide qualche decennio dopo scriveva in una semplice triade stesicorea snelle canzonette, da essere cantate e danzate per diletto, senza collegamento con l’azione drammatica, sperimentando inoltre ritmi musicali esteri di Oriente, progenitori dei blues di Porgy and Bess. Perciò il mio caro Giusto Monaco nel teatro sacro di Siracusa che intorno al 476 a.C. aveva visto e sentito il mitico Eschilo presentare le sue Etnee, saliva verso la sommità del pendio per annunziarmi una sorpresa eccezionale, che si concretizzava poco dopo in un trenino sbuffante da Luna Park che zufolava sulla sacra scena camuffata con grandiose strutture.

 

Il teatro, amici miei, ha le sue ferree leggi, e il Pubblico, mostro sacro delle diversità di gusti ed intelligenze, richiede di essere blandito e mielato, o altrimenti vuole essere lavorato allo stomaco e al fegato, la sorpresa e il terrore imperano nell’odierno spettacolo-finzione, dal vivo o su dvd. Basterebbe immaginare il teatro Nazionale di Monaco nel 1868, l’anno della prima di questo prologo, ripreso poi nel 1876 con l’intera trilogia (così chiamata da Wagner). Ci può aiutare qualche antico disegno stereotipato. Sono gli spettatori della Baviera del profondo Sud, che nel 1900Thomas Mann rappresentò magistralmente nei Buddenbrook. Siamo nella Germania dell’Impero e dell’età di Bismarck, ma anche negli splendori della reggia di Monaco che nel 1973 il conte Luchino Visconti ricostruì con la fosca e decadente tragedia del triste infelice Ludwig II dei Wittelsbach, tra omossessualità e follia e morte. Siamo in quel momento dell’immensa opera di costruzione della Festspielhaus di Bayreuth, ove la tetralogia fu rappresentata dal 13 al 17 agosto del 1876. Perciò, si diceva, lo spettacolo, über alles!. Quegli anni, con quei personaggi e quei costumi non potevano essere ripresi. Vietato tassativamente, come un’oscenità o un’offesa, ricreare ambientazioni in costume. Certo basta una tozza asta, infissa a tempo in una buca, o una specie di retina per capelli, a modo di elmo, per alludere. La scena da hangar di terzo mondo, le mura ruvide e antiche del fondale del teatro, tutt’al più qualche scenario di cartapesta da squarciare ogni sera, coloratissimo in una terra delle brume, insieme a splendidi girasoli, gli abiti quotidiani, possibili anche i raffinati denim, i muletti da scarico di supermercato guidati dai due giganti (uno smodatamente grassone, l’altro apollineo, ma neri perché cattivi?), tutti i marchingegni che debbono stupire l’improvvido spettatore di una prima, in fantasiosi vestiti di gala. Dopo la stupendo preludio, senza tante pretese interpretative, le tre ninfe, Woglinde, Wellgunde e Flosshilde, coschioni nudi in vestitini da collegiali che piroettano su sedie in plexiglas, non si sa quale a sbandierare come vessillo una mutandina (che trovata da cabaret), non si sa chi più sporcaccione tra loro se lei o il nano (si fa per dire). Tutto può fare spettacolo, purché non si superino i limiti del credibile, del comprensibile, e a scanso del ridicolo. Le ninfe sono le cosiddette veline e le sedie lucenti l’onda d’oro del Reno. Con molta molta fantasia! Dicevano di più le didascalie del teatro greco o quelle del teatro elisabettiano, semplice scritte di topografia. Ci si aspettava la grandiosità epica delle origini del mondo, del tempo delle ninfe e degli dei che soggiornavano sulla terra, quella sublimità titanica che volevano far presagire la musica e il testo wagneriano. Nella creazione mitica degli dei tedeschi, nel linguaggio allitterante e assonante della lirica primitiva, come l’Alberich della quarta scena: «Schändlicher Schächer! Du Schalk! Du Schelm!». Il titanico di un mondo in rovina che si svilupperà fino al crepuscolo degli dei, nella lotta tra l’amore e l’auri sacra fames. Non per nulla Nietzsche giocò sulle parole (Götterdämmerung) nel suo Götzen-Dämmerung, concluso con la catastrofe immane della Germania nazista. Sulla scena si sono agitati dei buffi personaggi che fingevano di reggere pesanti lingotti (quando non se ne dimenticavano), di danzare su sedie traballanti, di salire e scendere su improbabili ascensori celesti e infernali (il deus ex machina di tanto tragico, divenuto condominiale?). È la bellezza conturbante del modernariato a fare diventare attuale un dramma da museo? Se così è, dobbiamo dire che l’opera è morta e sepolta. Se si ritiene che il pubblico moderno non ha cuore per i sentimenti e per il grandioso, che ha bisogno di simili trucchetti per emozionarsi. Sfido chi loda l’ironia e la beffa, l’andamento da commedia buffa in una tragedia del primordiale, del titanico, del crollo angoscioso del divino. Eppure da sottofondo alla ironia delle soubrette e dei guitti, alla stralunata e sanguinolenta gincana di computer di Wall Street c’era la musica che giocava su tutti i timbri dal lieve al turbinoso, dall’elegiaco al tremendo, certo pur con quell’orchestra e quel giovane direttore. L’organico orchestrale di Wagner e di Bayreuth era di 124 strumenti, tutti quelli regolari più 18 incudini per la bufera, 8 timpani, 8 corni, con 32 violini tra primi e secondi, 12 violoncelli, etc. Poca cosa quei quaranta mimi che portavano sedie e infilavano steli, tutti per regolamento di plastica. È ancora un dolente accorato richiamo alla musica, pur con il rispetto delle mode e delle meraviglie scenografiche. Un tributo al tempio della musica, che tanti cantanti sulla scena hanno onorato con la loro voce e il grande sacrificio della professione, dal direttore Pietari Inkinen, a Franz Hawlata, Eric Greene, Sergei Leiferkus, Anna Maria Chiuri, Stephanie Corley, a tutti indistintamente.

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