L’oro di Palermo

( Gabriella Maggio)

 

 

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Sui quotidiani cittadini si torna a parlare della cultura palermitana militante, quella che non si compiace di ricordi personali, gelosamente custoditi e aristocraticamente ritenuti esclusivi o di amari rimpianti di glorie passate e spregio del presente. L’odierna produzione cinematografica, teatrale, narrativa palermitana cerca principalmente un approccio diretto senza veli con la città con l’intento di rendere evidenti i suoi problemi, i suoi limiti, le sue trite volgarità. E’ l’oro di Palermo come l’ha definito Mario Di Caro su La Repubblica del 13 settembre 2012. E’ una risorsa della città, un doppio con cui Palermo dialoga per ritrovarsi e sfuggire alla palude stagnante in cui è precipitata. Ma nello stesso articolo Emma Dante dice che la città “ se ne infischia di questo tesoro”. Forse è vero a livello istituzionale e diciamo pure della gente che di fatto “conta” per la realizzazione di progetti artistici. Forse è anche vero per una parte del pubblico palermitano. Ma questo è solo uno dei volti di Palermo. Di contro esiste una fascia di cittadinanza che non prende direttamente le decisioni, né ha la possibilità di impedire la realizzazione di un progetto, né è indifferente verso la cultura della città, per questa ha senso parlare di “oro” .

Perché questa ha interesse a conoscere, a confrontarsi con i punti di vista dei creatori e non arretra di fronte alla cruda realtà, sperando che la cultura sia la leva del miglioramento; aiuti a trovare l’” anello che non tiene “ di montaliana memoria. E non si tratta soltanto di isolati cittadini, ma di un buon numero di Palermitani che da soli o riuniti in associazioni senza fine di lucro o in club service gratuitamente si sforzano di far circolare la cultura, di svegliare i concittadini, spesso nell’indifferente silenzio delle Istituzioni locali il cui sguardo è sempre rivolto altrove. Si potrebbe obiettare che nella priorità dei bisogni della città prima viene il lavoro e poi la cultura. E in parte è vero. Ma la cultura può essere un lavoro, o può e deve affiancare il lavoro. E’ l’ignoranza il grande nemico da combattere. E’ lì che la mafia trova la sua manodopera. Questo affermano due opere recentissime, frutto dell’ingegno di due Palermitani, Egle Palazzolo con “ La chiamata” e Alberto Castiglione con “Adieu”. L’una giornalista e scrittrice l’alto giovane regista. Le due opere hanno in comune un tema purtroppo sempre attuale, la mafia; entrambe lo affidano in maniera scabra ed essenziale alla voce narrante di un giovane che ripercorre la propria inevitabile esperienza di mafioso, perché nato in un contesto di degrado morale e di bisogno economico. Entrambi gli autori si affidano alla forza mimetica del parlato e del contrasto linguistico tra chi sa e sa parlare e chi non sa parlare ed ha appreso troppo tardi chi è e dove e come vive. A questi giovani manca la consapevolezza di ciò che fanno, dell’orrore in cui vivono. Sono l’emblema di come si diventa mafiosi in un modo quasi naturale, senza accorgersene e perciò senza rimorsi; non si pongono domande, non hanno sospetti e se li hanno sono abituati a non assecondarli, perché non sono stati educati a pensare e capire; non sono capaci di parlare anche se articolano suoni : “ Un silenzio grosso che certo non s’interrompeva anche se ci domandavamo un bicchiere d’acqua .. “ dice Gaspare in “La chiamata”. Il senso civile di queste due opere sta perciò non soltanto nel riproporre all’attenzione della città il tema della criminalità organizzata, nell’additarne le cause nel bisogno economico, che comprende non soltanto il cibo e la casa , ma l’automobile, gli abiti alla moda, i telefonini, ma soprattutto nel sottolineare l’incultura dei protagonisti e del gruppo a cui appartengono, che genera l’inconsapevolezza dell’adesione al sistema mafioso. Questo angolo d’osservazione ci dice quanto è ancora lungo e complesso il cammino da fare a vari livelli, da quello socio-economico a quello dell’istruzione, a quello più ampio della cultura in senso antropologico, per sconfiggere la mafia. “ La chiamata” e “Adieu” sono testi aspri, che nulla concedono a facili speranze; sono senza speranza, almeno a breve termine. Ma hanno la forza di inchiodarci tutti alle nostre responsabilità. Per l’inconsapevolezza con cui spesso viviamo le nostre giornate e compiamo le nostre azioni. Altro elemento comune è l’allontanamento dei protagonisti dalla Sicilia, Gaspare in Argentina, l’altro in Germania. Ma la sorte di Gaspare è senza remissione, per quanto si sia sentito rinascere vivendo lontano da casa ed abbia gustato la vita semplice e appagante del lavoro e dell’ amore. Basta una cartolina per ricacciarlo nel turbine delle sue origini e del suo passato. Amara, perciò, ma solo in apparenza la conclusione di Egle Palazzolo, perché la storia di Gaspare si rivela senza via di scampo in quanto il giovane non ha saputo sognare come dice il sottotitolo del racconto lungo o romanzo breve ( La definizione letteraria non sembra interessare particolarmente Egle Palazzolo). Il sogno, l’utopia possono essere il motore del cambiamento. Nel film di Castiglione non sono indicate soluzioni; probabilmente il regista conta sulla reazione dello spettatore alla mancanza di speranza.

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