Se in una società prevale il dispregio delle regole
(Carmelo Fucarino)
Ernesto Basile, Complesso della Libertà, 1931 (ix era fascista)
Se in una società civile, riunitasi in Stato, giorno per giorno prevale il dispregio e l’insofferenza per le regole, statuite da un organismo comunitario elettivo, il Parlamento, allora realmente il patto sociale è stato azzerato e prevalgono l’arbitrio e l’egoismo, l’applicazione soggettiva delle norme. Tutto è possibile e nulla vietato, altrimenti apriti cielo, i giudici sono comunisti e il giudizio è politico. Credo che in questa Italia, che si vanta di essere origine e discendente dei creatori del diritto, senza il quale non ci sarebbero state Costituzioni e diritti universali, sono saltate tutte le più elementari norme di una civile ed ordinata convivenza. In primis, la norma generale della Costituzione, figlia della Resistenza e di un ventennio di leggi liberticide e di parte, nello specifico dopo lo strumento della censura preventiva.
L’articolo 21 detta i principi di uno dei diritti universali illuministici per i quali si batterono i rivoluzionari francesi nel 1789, anche se nella formula più ampia e generale di Liberté, assieme all’altra rinnegata dall’odierna dittatura finanziaria e di classe ricca, l’Egalité. Non cito la Fraternité che non è onorata neppure in certi club cristiani e cattolici che sono fermi ancora alle Crociate medioevali e al Deus lo volt contro il Musulmano e ritengono fratello solo il compagno di sodalizio. L’articolo così recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Esso si inserisce nella parte I, “Diritti e doveri dei cittadini”, titolo I, “Rapporti civili”, il cui primo articolo (art. 13), definisce la libertà: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Il “se non” spiega chiaramente che senza doveri non può esistere libertà generale né Stato, sarebbe anarchismo? C’è un piccolo diritto del cittadino nei confronti di questo invasivo e onnipotente Quarto Potere, talvolta alla sua prepotenza fatta legge: almeno la richiesta a bassa voce della verità “effettuale” e il rispetto della onorabilità individuale? Forse a voce alta il rispetto dell’individuo, in senso culturalmente umanistico, invece delle sventagliate di mitraglia di chi la spara più grossa. Cominciamo con il caso più facile e politicamente innocuo, tanto da essere relegato tra le beghe dei frequentatori di premi letterari, senza tante grancasse di telegiornali allarmati o interessati. Un editor nel suo Facebook (si tratta di metterci la faccia e di rivolgersi a soci di uno sfizio da dopolavoro) ha scritto una violenta e, pare dalle frasi pubblicate (e il tanto reclamato contesto?) acrimoniosa stroncatura con termini come «scribacchino mestierante», «autore di un libro letterariamente inconsistente», «scrittore con i piedi». Tutto sarebbe finito lì, se il romanziere che conosce la legge per lunga pratica non lo avesse querelato, dando notorietà al critico e al suo sfogo fra associati. Non è chiaro se le accuse siano sostenute da argomenti e prove estratte dai libri. Come se avesse intaccato la sua onorabilità sociale, non quella letteraria. Si sa che per tali offese una volta si arrivava al duello. Per non uscire dall’umile sfera del giornalismo, tutti sanno della tragedia del 6 marzo 1898, quando il battagliero radicale Felice Cavallotti fu ucciso nel giardino della villa della contessa Cellere dalla sciabola del conte Ferruccio Macola, direttore del giornale conservatore Gazzetta di Venezia, accusato… di essere “mentitore” per una notizia non verificata. Oggi in quaranta hanno inscenato un flash mob, si dice così, dopo l’arcana spending review e simili facezie edulcoranti, propalate per i non “inglesanti”. Per tutti c’era in piazza, non so se mi spiego, Nanni Balestrini. Pare che in questo caso per molti non si tratti di stroncatura di un narratore che altra attività ha saputo fare finora, ma di offesa all’onore, un’ingiuria, come quegli epiteti che mi ricevo anche da ragazzine su scooter se rallento con l’auto. Non si tratta d’altronde della sacra libertà di stampa, ma di una libertà di parola in salotto, senza offese da sanare con la spada. Tra parentesi il caso è in evoluzione, con qualche avance conciliante del recensore e dell’offeso querelante. C’è altra e vera libertà di stampa. Si può scrivere un titolo pesante, su un giornale nazionale di parte, ma sovvenzionato dai cittadini, seguito da una falsità (le affermazioni sono su tutti i media) e concludere: «Se ci fosse la pena di morte, questo sarebbe il caso di applicarla: per i genitori, il ginecologo e il giudice». Fortuna che non c’è, perché non cristianamente, ma biblicamente si tratterebbe della legge del taglione, quello dei tempi di Hammurabi (xix-xviii sec. a.C.), ammesso che l’aborto sia un omicidio. Eppure nella polis che, si dice volgarmente, abbia inventato la democrazia, un piccolo uomo soggiogato dalla iraconda Santippe preferì bere la cicuta per non disubbidire alla legge che aveva punito la sua libertà di parola e di pensiero con la scusa che corrompeva i giovani. Invece oggi si paragona l’Italia alla Siria (chissà perché) e alla Corea del Nord, al regime di Pol Pot, per una legge medioevale che tale non è stata fino ad ieri. In un sistema in cui per un ventennio i giudici sono stati buoni se assolvono il reo, politicizzati, se applicano i codici fatti ed emanati da tali Parlamentari, non ci si può attendere che il cittadino accetti il verdetto di condanna. In un dilagare di corruzione da tragicommedia, tra bulli e pupe, nuotate e peplum di Romoletti, tra risate mentre la terra trema in una commistione tra sacro e profano (chissà se la stampa al servizio della verità ci dirà cosa è successo ai grand commis divoratori infaticabili, i celebri “succhioni” di qualche anno fa in Sardegna e in Umbria), cosa possono valere le regole per alcuni. Il poveraccio può andare in carcere per un “ah! Cornuto!”. Dicono in coro che l’articolo non lo ha scritto lui, ma un anonimo Dreyfus (oggi reo confesso). Che c’entra il martire-simbolo dell’antisemitismo con questa storia? Poi, mi verrebbe da chiedere di ridefinire per legge il ruolo di un direttore di giornale. Mi pare che in certi salotti televisivi, i direttori scappano dopo aver beneficato gli “utenti” della loro esperta opinione, perché hanno il briefing redazionale. Invece, a quanto pare, il redattore o il semplice free lance possono pubblicare quello che vogliono. Senza che il direttore si compiaccia di leggere almeno i titoli. Un esperto costituzionalista, si è accorto che la legge è medioevale. Ora? Non era stato detto da tanti organi internazionali autorevoli che in Italia manca la libertà di stampa? Certo, se i mass media hanno solo due referenti o giù di lì. E i poveri cristi, i piccoli giornalisti di testate di provincia che hanno conosciuto le patrie galere? Si è mai chiamato in causa il Presidente della Repubblica o si è proposto un decreto-legge, quando di tanti poveracci si è sputtanato l’onore familiare, senza alcun nesso con il reato e il processo? Ben venga una semplice ammenda, una piccola contravvenzione per i reati di opinione, però guai al Parlamento che legifera ad personam, perché allora rappresenta solo se stesso. Le banali, semplici regole. Un nostro pretendente alla presidenza della Regione con tanti uomini a sua disposizione, segreterie elettorali e non, si è subito lanciato ad attaccare manifesti. Ma dopo mesi che si sapeva delle scadenze elettorali, si dice, che si sia dimenticato di cambiare residenza. Non siamo infallibili, può capitare anche che si dimentichi di pagare le tasse. Il Viminale però lo ha depennato. Anche lui non ci sta, anche per lui, «che paese è questo?». Dichiara: «è un golpe. Si tratta di uno squallido tentativo di farmi fuori» e «Per quattro giorni mandano a monte tutto». Poi i toni melodrammatici: «A questo punto invadano la Sicilia con i carri armati e la occupino». Certo se nella Milano europea nulla è successo per supposte firme false, se altra volta le liste furono presentate fuori orario e non se ne è più parlato, figurati cosa sono due giorni. Come non si riesce a capire che un termine fisso non può avere deroghe, neppure di un minuto, se non si vuole l’arbitrio? Per collegare i tre fatti. Un giornalista, martire nel significato originale greco, scriveva a proposito di libertà ed onestà: «Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo » (Lo spirito di un giornale, articolo dell’11 ottobre 1981). Ma questo giornalista troppo pretenzioso si ebbe cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca in una fredda sera dei primi di gennaio di ventotto anni fa. Chiuderei con versi che vorrei scolpiti nei cuori a ricordo di questo giornalista, morto sulla trincea assassinato, grande uomo che meriterebbe più rispetto (Dante, Purg. I, 71-75):
«libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara».