Madama Butterfly o la Medea in salsa giapponese
(Carmelo Fucarino)
Scena aperta su una collina presso Nagasaki – infelice tragica martire città! -, un americano con il nome da fumetti per bambini, Pinkerton, Goro-macchietta, “gran perla di sensale” , che gli mostra “dimora frivola” e persone di servizio, una sorprendente cameriera della sposa, Suzuki , che parla per ocunama, «Il riso è frutto e fiore» e all’americano che la definisce «A chiacchiere costei mi par cosmopolita». Tutto sembra tranne che un dramma. Perché la novella originaria dell’americano J.L. Long era in effetti una commediola a lieto fine, encomiastica della bontà americana. A Londra nel 1900 Belasco ne aveva ricavato invece un dramma e così il duo librettistico, il mediocre L. Illica e il grande Giacosa, si erano adeguati all’entusiasmo dello scopritore del tema, il romantico Puccini, al quale erano care le fanciulle infelici e suicide per amore. Non ci sono avance e altre premesse. Siamo al momento degli sponsali, con la folla delle autorità e dei parenti, «la suocera, la nonna, lo Zio bonzo (che non ci degnerà di sua presenza) e cugini! e cugine… Mettiam tra gli ascendenti ed i collaterali, un due dozzine, quando alla discendenza…». S’inerpica e arranca il console “sfiaccato” verso «una casetta che obbedisce a bacchetta».
Pur se anche di Giacosa, quel grande verista sentimentale di Tristi amori o Come le foglie, i libretti sono istruttivi, specie quando, nel caso del bizzoso Puccini, il testo doveva adeguarsi alla musica e non il contrario. Il caso di Wagner, autore unico di testo e musica, è stato più singolo che raro. Ma torniamo allo sposo: «Dovunque al mondo il yankee vagabondo / si gode e traffica / sprezzando i rischi.». Dialogo: «Sareste addirittura / cotto? – Non so! Dipende / dal grado di cottura!». E la grande filosofia del gigolò: «Amore o grillo ~ donna o gingillo». E ancora «Così mi sposo all’uso giapponese / per novecento / novantanove / anni. Salvo a prosciogliermi ogni mese. “America for ever!” ». E infine Goro: «Una ghirlanda di fiori freschi. Una stella / dai raggi d’oro./ E per nulla: sol cento / yen». E il capitano invita a brindare: «E al giorno in cui mi sposerò con vere / nozze, a una vera sposa… americana». Per farla breve ha comprato e sedotto una povera geisha di quindici anni. Ci voleva proprio grande bravura! Certo che anche Giulietta era più piccina,ma il suo Romeo era quasi coetaneo. Se pensiamo alla moralità dei primi del Novecento e alle fobie antisessuali, Puccini e l’opera e Ricordi e la Scala non dovevano proprio andare sul sottile in quanto a moralità. Ma forse perché era l’opera. Perché si può anche fingere di sposare una quindicenne con tutti i crismi rituali del paese, ma non si può dopo tre anni giungervi con la moglie e pretendere di carpire un figlio di cui non si suppone l’esistenza, del quale non si ha alcun diritto. Ma questa è pruderie cattolica, come i suicidi ricorrenti, qui un harakiri (propriamente “taglio del ventre” e non della gola, rituale serio di espiazione di una colpa o di un disonore e non di una delusione amorosa), con spruzzo plateale di liquido rosso che risulta alquanto comico o alla Dario Argento più che ad effetto scenico tragico. Anche la fantasia vuole un suo spazio, che in effetti la scarna scenografia gli aveva lasciato con la sua sobrietà. Intorno al 1953 il mio fascinoso professore di italiano ne fece un appassionato encomio, partendo dalla celebre canzone Imagination del 1945, cantata da Frank Sinatra (Van Heusen-Burke), « Imagination is funny / It makes a cloudy day sunny / It makes a bee think of honey /Just as I think of you». Un altro momento mi ha turbato in queste scelte tematiche pucciniane, quel grido liberatorio di una ragazzina innamorata, «Abramo Lincoln!», canto di gioia per l’arrivo di una nave simbolo. Una scuola ha fatto un cartellone con il disegno di una nave. Aveva il nome emblematico di quel presidente della guerra di secessione (12 aprile 1861, l’anno in cui si faceva l’Italia e lo zar Alessandro II aboliva per decreto in Russia la servitù della gleba), la più tragica delle guerre civili, aizzata dal razzismo e dal mai indomito schiavismo, di uno dei tanti presidenti degli Stati Uniti, assassinati per la loro politica libertaria. In una vicenda di razzismo, alla fine questa è la tragedia della piccola innocente geisha, e di un irridente colonialismo, lo yankee, come lui stesso si definisce, in una beffarda coincidenza. Non avrebbe mai potuto lontanamente immaginare il tormentato Puccini, che quella collina sarebbe stata spazzata da un vento di fuoco e sarebbe rimasta a futura memoria un monumento-memento, il Nagasaki Peace Park e un funesto Museo, il Nagasaki Atomic Bomb Museum, in ricordo del 9 agosto 1945, il dies irae occultato nei cuori. Per inciso anche il nome del capitano gronda nobili allusioni, Benjamin Franklin Pinkerton. La favola mi trascina nella lontana Colchide, ove giunse un uomo di Atene, l’America del tempo, con più nobili intenti, il vello d’oro. Una fanciulla tradisce il suo popolo, lo aiuta e ne diviene amante. Poi la “barbara”, scacciata dal letto per una fanciulla indigena e regale, uccide i figli. Più civilizzata la nostra geisha lo cede al vincitore.
Chiedo perdono ai lettori, se questa volta ho voluto riflettere su temi e stilemi e comici effetti di certo teatro lirico e ho dato un taglio più sociologico al mio intervento. Anche perché i temi pucciniani non mi sono assai congeniali e graditi, a parte la musica con le sue melodie orecchiabili. Perciò lasciando il tema e da un certo punto di vista anche la musica che vuol commentarlo, mi volgo allo spettacolo, a questa ennesima riedizione di un’opera di sicuro effetto popolare. Si dice che la débâcle della prima della Scala il 17 febbraio 1904 fosse dovuta, non certo ad influsso malefico del numero, ma all’eccessiva lunghezza del II atto, poi diviso in un II e III. Non so quanto possa risolvere il problema la lunga pausa a sipario calato con prove sonore di orchestra, seguita dal lunghissimo intermezzo sinfonico. A parte la presenza nel palco, non di abbonati sorteggiati, ma del primo cittadino che ha rappresentato le istituzioni e i Palermitani, ogni settore era stracolmo, non un posto vuoto, colorita la componente giapponese, e straordinaria dato il contenuto non proprio benevolo verso la loro terra. Ma la musica e la fama fanno anche questi miracoli. È vero che era la prima dopo un’estate equatoriale, ma certamente lo spettacolo aveva le sue ragioni da rivendicare. Intanto la messinscena, quella «storica del teatro italiano – proveniente dal Teatro Carlo Felice di Genova – e firmata per le scene e i costumi da Beni Montresor, celebre artista scomparso nel 2006», allestita per la prima volta nel 1995 e ora ripresa da un suo discepolo Andrea Cigni. Poi la protagonista, Cio-cio-san, l’eccezionale Daniela Dessì, che l’ha proposta al Metropolitan e di Puccini è una specialista, per qualcuno una Norma perfetta ed unica, anche se ha interpretato le protagoniste di La Bohéme, La Fanciulla del West, Gianni Schicchi, Manon, Suor Angelica, Tabarro, Tosca e Turandot Sarebbe inoltre limitativo dirla interprete pucciniana, se ha scorso l’alfabeto degli autori d’opera da Belllini fino a Zandonai. Di Verdi ha affrontato ben 15 opere (una sbirciatina al suo official web site). Ma tutti hanno avuto il loro momento di gloria e gli applausi calorosi, la Giovanna Lanza-Suzuki, lo smagliante Roberto Aronica-Pinkerton, il sicuro console Alberto Mastromarino, e perché no, anche Massimiliano Chiarolla in Goro. Che dire dell’elegiaco lunghissimo insistito intermezzo sinfonico tra secondo e terzo atto, quel tema così mesto e triste, che sembrava dilungarsi all’infinito, o di quel pezzo di bravura del Coro a bocca chiusa, solo flatus senza valore semantico, o delle celeberrime arie e duetti. Coinvolge sempre una languida emozione, qual non so che di larmoyant che è nella tradizione scapigliata milanese, quello strizzare il cuore nel fluire di Un bel dì vedremo. E poi Spira sul mar, Viene la sera, Scuoti quella fronda di ciliegio, fino al tragico «Tu, tu piccolo iddio! / Amore, amore mio, / fior di giglio e di rosa», con riverberi del «O figlio, figlio, figlio,/ figlio, amoroso giglio!» dalla Donna de Paradiso di Jacopone . Senza voler esser sacrileghi, in Occidente si può dileggiare solo Maometto.