E gli Italiani in o di America?

(Carmelo Fucarino)

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La cultura, nella definizione più lata, che comprende oltre allo stile di vita, le arti nel complesso, dalla letteratura (narrativa, poesia, storia, critica) alle arti mediatiche (cinema per prima, tv, musica di ogni tipologia, classica, operistica, leggera) e alle arti propriamente dette (pittura, scultura, architettura), determina nella sua complessità lo “specifico” di un gruppo uniforme, diciamo sociale, se vogliamo evitare il pericoloso ed equivoco termine “razziale”. Si può parlare di ethnos, come avviene per l’American way of life (pur esso ideologicamente equivoco e pericoloso) oppure definirlo nel termine globale che rappresenta la Nazione, come area geografica ben definita senza implicazioni nazionalistiche. Finora non mi ero mai posto la questione della cultura italiana, perché essa era per me circoscritta in quel farsi e determinarsi di Italiano in patria. Perciò era da Dante fino ad Eco e Luzi, da Michelangelo a Piano, da Giotto a Guttuso, da Fellini a Tornatore, e via di seguito, quella supposta o supponente eccellenza artistica che aveva alimentato il mio orgoglio di essere italiano. Dall’interno è pertanto facile definire l’essenza della civiltà italiana, dell’essere Italiano e non Francese o Tedesco o Spagnolo, spesso con una punta di orgoglio campanilistico, anche noi soffriamo di grandeur.

Ne ho definito la complessità con l’occhio di un soggetto che ne vive quotidianamente l’esperienza, dalla prima formazione didattica delle elementari, al continuo input quotidiano, che vanta tesori artistici con quozienti mondiali, la Bella Italia del paesaggio e del turismo, il top della scienza e dei geni in ogni campo (Chi ci ha rubato Meucci e Marconi e Fermi?). Non mi ero mai posto la questione dell’essere italiano analizzato dall’esterno e soprattutto dal punto di vista di un italiano che vive come minoranza in un’altra nazione e vuole esprimere in qualsiasi tipo di arte la sua interiorità, il suo modo di essere, la sua esistenza tra “diversi”. Perciò la dialettica sulla questione, a cominciare dalla premessa propedeutica di definizione semantica del termine, “con trattino o senza”, per lo specifico del narratore l’hyphenate writer, mi ha colto di sorpresa per la problematicità dell’essere italiano in America, cioè per dire degli Stati Uniti. Dopo aver letto di un fiato il testo di Anthony Julian Tamburri, Una semiotica dell’etnicità. Nuove segnalature per la scrittura italiano/americana (Franco Cesati editore, Firenze 2010, € 22), ho scoperto di avere avuto fino alla mia età non certo verde un approccio troppo generico e superficiale con la cultura di Oltreoceano che per la maggior parte è materiata di complessi rimandi e substrati culturali. Le mie conoscenze e gli studi sulla questione si erano abbondantemente rivolte alla cosiddetta cultura e letteratura latino-americana (forse per frequentazioni culturali e amicizie personali?), a cominciare dagli Indios che scrivevano in Spagnolo, al grande boom degli autori dell’America latina, piccoli e grandi, un cinquantennio fa, sulla spinta di quello straordinario monumento etnografico di Cien años de soledad del 1967, reso celebre anche dal Nobel, dalla mia giovanile passione per l’elegia amorosa di Neruda, alla infatuazione per il brasiliano Jorge Amado, fino all’ultimo Coelho attraverso il rovello di Finzioni e lo straniamento di L’Aleph di Jorge Luis Borges. Rare volte era stata affrontata la questione del colombiano, dell’argentino, del boliviano, del cileno, del brasiliano che scrivevano in spagnolo o portoghese. L’essenza culturale mi era stata ignota, frastornato e attratto dall’etnicità di questi scriventi spagnolo o portoghese, la sorprendente supremazia e originalità dei romanzi del Nordeste. Ancora oggi l’uscita di un romanzo della cultura latino-americana suscita in Italia grandissima attenzione e riscontri milionari. Eppure in questo battage mediatico non mi ero posto il problema della letteratura italiana nell’intero Continente americano, figuriamoci della letteratura di italiani negli States. Era una non-domanda se in Argentina con un terzo di abitanti originari di Italia ci fossero grandi scrittori di nostra estrazione, di terza, seconda o ultima generazione. È, lo riconosco, una mia grave lacuna, ora che di questa cultura scopro per opera di Tamburri le coordinate, sincroniche e soprattutto diacroniche, del fare letteratura da parte di italiani obiettivamente diversi e particolari, sia dalla parte dello scrittore nella sintesi delle tre fasi generazionali di Aaron e delle tre età vichiane di Gardaphé (pp. 46-56), sia sul concetto opposto, ma ugualmente o forse maggiormente importante, di lettore italiano di America.  Nell’impostazione di questa prospettiva di scrittura e di lettura, la seconda parte del libro serve da raffronto di metodo attraverso le esperienze dirette degli autori, inseriti in uno schema evolutivo. Mi limiterò a indicarne i titoli per esplicitarne la traiettoria: 1. La scrittura “espressiva” di Tony Ardizzone; 2. Il romanzo “comparativo” di Helen Barolini; 3. Il romanzo “sintetico” di Giose Rimanelli. La conclusione della ricerca: “Dove possiamo andare!”. Considerata superata la “differenza etnico/razziale del melting-pot” dopo la più massiccia migrazione d’Europa del 1880-1924, «oggigiorno, invece, nei circoli accademici ed intellettuali si parla ben poco in tali termini, non pensando più né in termini di una gerarchia estetica e nemmeno in termini di sovraspecializzazione». Evidenziando il fenomeno della diaspora italiana, sia interna sia esterna, Tamburri propone infine come “nozioni e strumenti interpretativi” gli studi culturali e/o multiculturalismo critico, perché tale nozione possa «funzionare in modo efficace come utile espressione di differenza, e a loro volta, studi culturali potranno figurarsi come utile strumento di ricerca ed interrogazione, offrendo in ultima analisi un’atmosfera di uguaglianza sia per un discorso critico che per uno scambio culturale (p. 171-72).  Da questa impostazione critica dell’essere scrittore e lettore italiano in America un grosso dubbio è sorto nella mia limitatezza di tali letture, nella scarsità di traduzioni e nell’assenza di visibilità in Italia. C’è una ragione per cui in Italia questa letteratura è quasi latitante, nota a qualche adepto “iniziato”, e non riceve la giusta consacrazione nelle classifiche librarie? Ho provato a chiedere in libreria gli autori celebri esaminati in questo prezioso saggio, anche per verificare le osservazioni e riflessioni di un italiano di America (non so in quale fase inserire l’amico Tamburri, professore ordinario d’italianistica e di letteratura comparata e preside del J. Calandra Italian American Institute del Queens College della CUNY). Figuriamoci reperire il testo originale, è impossibile trovare anche la traduzione in questa periferia del mondo. Eppure tutti in Italia e in Sicilia conoscono i grandi registi e attori e cantanti italiani di America, i vari Capra, Scorzese, Pacino, De Niro, Stallone e Travolta, Madonna e Di Caprio. Neppure questa piena travolgente di notorietà, talvolta con improbabili padrini, fichi d’india e maranzano, nulla ha potuto perché l’industria editoriale di casa nostra si gettasse a capofitto su questa immensa letteratura di qualità e facesse conoscere all’Italia una parte non piccola, direi essenziale di se stessa. Tutti i padrini abbiamo conosciuto, tutti i volumoni dei vari Stephen King con copertine in caratteri in rilievo sommergono le librerie (oggi impazza la trilogia anglo-porno), ma si sono ignorati gli autori che raccontano di noi stessi come eravamo e siamo in altro contesto sociale, gli scrittori che sono una parte di noi.  Forse sarebbe il caso di sollevare il sipario su questo mondo “escluso”, con studi e seminari, nel nostro piccolo giro di Club con semplici caminetti culturali, di avviare una nuova scoperta … dell’America.

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