L’elisir d’amore
( Salvatore Aiello)
A conclusione della prima parte della Stagione 2012 al Massimo di Palermo è andata in scena L’elisir d’amore, l’opera che consacrò Donizetti alla fama di successore di Rossini sottraendolo all’anonimato di tanti lavori di routine. La nuova edizione che puntava sull’idea registica di Damiano Micheletto con le scene di Paolo Fantin e i costumi di Silvia Aymonimo, trasportava l’originale ambientazione lombarda in versione beach: tutto al sapore di mare con l’intensione di allontanare dalla storia di Scribe quell’aura di malinconia che la permea, per cedere ad un clima di cordialità ed allegria, in un’ambientazione altra. Ci attendeva quindi una spiaggia affollata di personaggi ed oggetti. Un chiosco di gelati, un motore, un’automobile, una grande piscina gonfiabile, ombrelloni e sdraio vivacemente colorati animavano la scena sulla quale si muovevano, in maniera frenetica e nevrotica, i personaggi svuotati di ogni pensosità e trascinati ad libitum dallo spirito vacanziero allorché anche i sentimenti vanno in ferie.
E così Adina diventava proprietaria di un baretto, Giannetta lavorava alle sue dipendenze, Belcore era un militare arruolato in Marina e Nemorino veniva promosso a bagnino tuttofare; anche Dulcamara cambiava fisionomia, giungeva in jeep per vendere energizzanti e qualche bustina che basterà, nel finale a sorpresa, a fare arrestare l’incauto Belcore. Superato il nostro iniziale faticoso adattamento a seguire lo spettacolo che oltre già detto regalava anche alcuni momenti di volgarità ed ovvietà (i cantanti spesso si lasciavano prendere la mano cadendo in gratuite esagerazioni), a conciliarci con l’opera c’era la musica che nonostante tutto passava indenne da questa operazione che voleva avere caratteristiche di originalità a tutti i costi negando ogni fremito di emozione sentimentale cedendo piuttosto alla parodia dei sentimenti. Paolo Arrivabeni con piglio deciso a capo dell’orchestra ci regalava sin dall’inizio approfondimenti, chiarezza dell’ordito orchestrale a servizio del canto con toni e colori morbidi teso a restituire il ben noto pathos donizettiano. Amalgamato risultava il cast che vedeva allineata una compagnia di giovani artisti disponibili a sposare in toto l’idea del regista dando la sensazione piena di crederci e di divertirsi. Adina era Desirèe Rancatore che riconfermava ancora una volta le sue precipue doti di vocalista dandocene un saggio soprattutto nelle variazioni (per l’occasione scritte) inserite nella sua aria conclusiva dell’opera. Celso Albelo, Nemorino, nonostante un timbro piuttosto generico, si rivelava cantante di buona scuola, dalla facile e morbida emissione, sicuro e svettante nella zona acuta; apprezzato particolarmente nella ”furtiva lacrima” ne concedeva il bis. Di grande risalto il Belcore di Mario Cassi sia vocalmente che scenicamente; il bel fisico, la vocalità smagliante, volume e squillo adeguato lo rendevano simpatico ed anche credibile e con lui il grottesco Dulcamara di Paolo Bordogna che all’ibrido colore della voce sopperiva con una decisa carica interpretativa e scioltezza nella gestualità da autentico imbonitore. Giannetta era l’efficace Elena Borin. Presente ed in aggetto il coro di Andrea Paidutti. Così un pubblico, già vacanziero, era disposto a traghettare una serata che definiremmo “kitsch”.