Ornithes, ieri e oggi

(Carmelo Fucarino)

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Era il preistorico 1963, quando Alfred Hitchcock trasse spunto dall’omonimo racconto di Daphne du Maurier e atterrì gli spettatori con la rapacità dei suoi Gli uccelli (The Birds). Da un episodio vero di invasione di uccelli a Santa Cruz il regista creò una sconvolgente fantasia, su una struttura costruita razionalmente sulle orme addirittura delle unità aristoteliche. Vi si intrecciano diversi temi, quello dell’abbandono e della solitudine assieme a quello della paura, il tema della visione, ma soprattutto quello dell’incomunicabilità con la metafora della frantumazione e della distruzione. Però sconvolsero soprattutto gli effetti speciali creati da un trio di esperti che elaborarono artificialmente tutti i rumori degli uccelli con uno strumento elettronico chiamato dal nome del suo inventore Trautonium. Questa la partitura della colonna sonora, se si esclude un accenno alla Premiére arabesque di Debussy e una canzoncina di scolari (Risseldy Rosseldy).

 

image                                                       Sergio Mancinelli Evelpide

Già era giunta a Siracusa da Atene la temuta nave Salaminia, che recava l’invito per Alcibiade a far ritorno in patria per essere processato con la grave accusa di sacrilegio per la mutilazione delle Erme. Supponendo una congiura contro di lui, preferì chiedere asilo politico a Sparta e fu condannato a morte. È l’inizio della fine per la polis dell’età aurea, suicida per ipertrofia (colonizzazione pure delle nuvole). Eppure a Siracusa nella primavera del 414 a.C., distrutti i seicento opliti di Diomilo, gli Ateniesi si erano stanziati nella fortezza di Labdalo, nell’altopiano dell’Epipoli, dove ormai potevano controllare i movimenti dell’intera città.

Nelle Dionisiache di quella primavera gravida di imprevedibili eventi Aristofane presentava ad Atene la sua più lunga commedia (1765 vv.), e otteneva il secondo premio, dopo un certo Amipsia, che era incoronato con I gozzovigliatori. Certamente mancò il coraggio alla giuria che si trovò turbata e spiazzata davanti ad una feroce satira dei tempi presenti, dei quali si rappresentava l’impossibilità di trovare sulla terra un posto dove poter vivere serenamente e con giustizia. Perciò tragicamente attuale, nell’odierno sistema globale dominato da una cinica finanza, che, cancellata dalle norme di sistema l’umanità, corre verso il suo suicidio per abbuffata, questa fuga impossibile in una fantasmagorica Nephelococchiughìa (v. 878), il non-luogo surreale (il «topos senza affari»), ove i due eroi buontemponi, Pisetero (“Persuasore di compagni”) e Evelpide ( “Buona-speranza”), possono perpetrare la vendetta, come punizione della feccia dell’umanità del tempo e umiliazione pure degli dei complici del degrado morale per un semplice profumo di arrosto. In questo breve intervento, tralasciamo l’argomento notissimo e l’analisi della prodigiosa favola e rivolgiamo la nostra attenzione a un luogo eccezionale e unico della commedia attica arcaica, che in genere viene trascurato o sottaciuto. Si tratta della parabasi, in origine elemento fondamentale e distintivo dell’intera commedia attica, che ricevette forma storica nel suo momento di splendore dall’innesto e intreccio dell’agón narrativo con l’originario coro del kȏmos (κῶμος), il corteo rituale, durante il quale i partecipanti si abbandonavano ad un’atmosfera di ebbrezza, ad espressioni di sfrenatezza e baldoria.  Al tempo di Aristofane la parabasi era divenuta un momento di pausa dell’azione, in cui il corifeo, si rivolgeva direttamente al pubblico, esprimeva quanto il poeta intendeva dire in prima persona sulla situazione politica e sociale, sulle sue scelte letterarie. Questa funzione soggettiva in forma di satira, talvolta di sarcasmo, sarà assente nella commedia latina che imiterà e contaminerà la successiva commedia di mezzo e nuova. Terenzio si servirà del prologo per le sue piccole beghe personali di autenticità. Meglio e più vicino il buon Manzoni che si riservò nelle tragedie un “suo cantuccio”, avulso dall’azione tragica, per esprimere il suo pensiero politico.  Secondo un anonimo autore del trattato Commedia, la parabasi seguiva al prologo e al primo agone e si sviluppava canonicamente in sette parti distinte. Non era raro che non fossero tutte presenti, ma poteva accadere che si trovasse nella stessa commedia una seconda parabasi, come in questa. La struttura (1a parabasi, vv. 676-800) si avvia con un kommátion (κομμάτιον) o pezzetto introduttivo, qui il pezzo di bravura dell’elogio dell’usignolo e l’invito a lui che modula «il suo flauto dal bel suono con canti primaverili a dare inizio agli anapesti». Poi attacca la solenne e bellissima paràbasis (παράβασις): «orsù, uomini di vite nere per natura, somiglianti alla generazione di foglie, senza forze, figure d’argilla, deboli stirpi simili ad ombre, senz’ali, di un sol giorno, miseri mortali uomini simili a sogno!». Loro invece «immortali, che esistono sempre, aerei e senza vecchiaia» si offrono a spiegare per bene la dottrina dei corpi celesti, la natura degli uccelli, la nascita degli dei e dei fiumi ed Erebi e Chaos». E proprio da questo comincia con l’incedere di una favola: «ed era il Chaos e la Notte e l’Erebo per prima…». Così una vera cosmogonia uccellina sulla scia di Esiodo, per giungere alla scoperta delle stagioni (il “tempo stagionale”) ed alla negazione del tempo personale e soggettivo, e concludere con l’invenzione della divinazione. Perciò nella “soffocazione” (πνῖγος), con l’incalzare dei brevi anapestici si offrono di essere meteorologi, addirittura per predire il tempo, non prevederlo. E l’odé (ᾠδή), l’inno alla Musa dei boschi al ritmo onomatopeico di «tiotiò, tiotiò tïotínx». Poi scatta l’”aggiunta” (ἐπίρρημα) con il graffiante sarcasmo contro i fuorilegge che invita a mescolarsi agli uccelli: «tutto quanto lì è turpe e governato dal nomos, presso noi uccelli è buono», così dare un pugno al padre, fuggire da schiavo, così i vari malacarne, fino ai banditi e ai proscritti. Poi l’antodé (ἀντῳδή), l’inno dei cigni ad Apollo, per chiudere con una seconda “aggiunta” (antepírrema, ἀντεπίρρημα), esilarante sarcasmo su quanto è «più bello e dolce farsi crescere le ali» (v. 785): se hai fame a forza di cori tragici, se hai mal di pancia, levati in volo, fai due scorregge e ritorna, se vedi il marito della tua ganza nel teatro, una bella volatina e via a scopare con la moglie. Le solite sortite panciafichiste del conservatore Aristofane.   Lo straordinario di questa commedia è la presenza di una seconda parabasi (vv. 1058-1117), che in parte spiega perché gli undici giurati negarono il primo premio a questo capolavoro in assoluto della commedia di tutti i tempi. Nel primo epírrema è lanciato il bando di condanna a morte contro coloro che «rovinano con guasti orrendi i giardini profumati», invece il premio di un talento per chi uccida uno dei tiranni, e naturalmente per chi uccida l’uccellatore. Il canto si alza con la “beatitudine” (makarismós) della stirpe degli uccelli alati, per concludere: «ai giudici vogliamo dire riguardo alla vittoria: se votate per noi, a voi tutti daremo tanti doni, che saranno di gran lunga migliori di quelli che prese Paride»; poi non faranno mancare loro monete d’argento (“civette d’argento”), anzi verranno a fare nidiate di monetine nelle loro borse, costruiranno loro case come templi, daranno un gancio per arraffare, gozzi da pellicano per ingozzarsi. Invece «se non ci votate, forgiatevi delle lunette di bronzo da portare come le statue, perché chi di voi non ha copertura allorquando avete una clamide bianca pagherete il fio, imbrattati di sterco da tutti gli uccelli». A parte gli inviti di lasciarsi corrompere con proposte indecenti, la beffa finale e l’irrisione volgare della pena stercoraria.

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