Prove Invalsi ed Elogio alla Diversità
( Daniela Scimeca)
Qualche giorno fa, nell’aula magna di un liceo, si è consumato l’ennesimo dibattito-scontro sulle prove invalsi. Le famigerate. La sigla dell’Ente è in minuscolo, ma andrebbe abbreviata in tutt’altra maniera. Nessuno ce ne voglia se non lo facciamo: è ormai un acronimo colloquiale, e poi ci piace ridimensionare i formalismi per non lavare la biancheria in pubblico. Ma cosa saranno mai queste prove per scatenare tante discussioni, e obbligare i docenti a estenuanti polemiche sull’argomento? Sono, né più né meno, verifiche sulle conoscenze e le abilità degli studenti, pillole che vengono somministrate annualmente nelle scuole
. L’invalsi fa ricerche in ambito, è dotato della personalità giuridica che si occupa di tale somministrazione – con licenza di farmacologia burocratica – e ne estrapola i risultati. Risultati che dovrebbero servire al miglioramento dell’offerta formativa. Tutto ciò, in teoria. In questi anni, le prove hanno solo messo in evidenza una eterogeneità dovuta ai diversi contesti e un abbassamento dei parametri di sufficienza, ma di fatto non hanno contribuito a un miglioramento dell’offerta formativa. Dal Ministero non è arrivata una sola indicazione o proposta tesa a migliorare la qualità delle istituzioni scolastiche in base ai risultati pervenuti. Da qui nasce la domanda: vista l’inutilità pratica delle prove, perché proporle togliendo tempo all’attività didattica vera e propria? Così, nonostante il 95% delle scuole italiane abbia concesso la loro somministrazione, forse un po’ passivamente e senza alcuna riflessione sulla loro efficacia, il 5% ha deciso di opporsi ribadendo a chiare lettere il carattere non obbligatorio dei test, che di fatto sono una “attività straordinaria”, quindi soggetta alla discrezione degli organi collegiali di ogni istituto.
Quest’anno il governo tecnico ha deciso di recidere alla base il problema, inserendo nel decreto legge n.5 sulle semplificazioni il tanto dibattuto articolo 51: esso stabilisce che la rilevazione degli apprendimenti deve far parte della cosiddetta “attività ordinaria”. Basta dunque questa espressione per rendere obbligatorie le prove? In realtà no, perché qualunque attività ordinaria al di fuori delle lezioni, come ad esempio una gita scolastica o la proiezione di un film, va decisa dagli organi collegiali della scuola e dai singoli consigli di classe. In ogni caso non configura mai obbligo per i docenti che offrono spontaneamente la loro disponibilità. Tra l’altro, se proprio vogliamo essere pignoli, dando una spolverata alla Costituzione, la presunta obbligatorietà andrebbe a cozzare con l’articolo 117 sull’autonomia delle istituzioni scolastiche, e con l’articolo 33 sulla libertà di insegnamento. Rimane il dato che il Ministero e alcuni Presidi vogliono rendere a tutti i costi le prove obbligatorie. La valutazione è materia assai complessa, i parametri che devono essere presi in considerazione sono molteplici; essi variano anche in relazione ai diversi contesti sociali, economici e culturali. È dunque lecito avere perplessità sulla validità di prove uguali somministrate ad alunni assai diversi tra loro. Nei docenti più recalcitranti al metodo invalsi si insinua il dubbio che le prove tendano in qualche modo a omologare e ad uniformare apprendimenti e metodologie. Ma l’insegnamento comporta un alto grado di autonomia, che permette al singolo insegnante di scegliere in base agli alunni che si trova di fronte e di ridurre o prolungare il programma in base alle esigenze della classe. L’insegnante deve essere libero di sperimentare percorsi nuovi, trovare strade alternative, e perché no, lavorare di fantasia per portare gli alunni verso un apprendimento non solo duraturo ma anche – e soprattutto – consapevole. E poi siamo davvero sicuri che sia meglio che tutti sappiano più o meno le stesse cose, allo stesso modo, o è forse preferibile avere studenti che abbiano appreso in maniere diverse, meglio se personalizzate, svariati argomenti? Da questo punto di vista, anziché i test della discordia, sarebbe opportuno valutare la possibilità di creare progetti volti al dialogo-incontro tra studenti e docenti provenienti da diverse parti del paese. Ne potrebbe venir fuori uno splendido confronto tra menti, metodi e saperi diversi, tale da far nascere una vera e propria condivisione della cultura in senso lato. La diversità, in questi casi, dovrebbe essere considerata come una ricchezza, non un ostacolo. È dalla diversità che si genera il confronto, e dal confronto nascono sistemi di valori, nuovi atteggiamenti, alternative di pensiero. Cosa mai diventeremmo se fossimo tutti uguali? Un genere indistinto di personalità e conoscenze omologate senza alcun valore aggiunto.