Di Alcibiade, bello e ricco
(Carmelo Fucarino)
Socrate, in una data tra il 432 e il 430 a. C., quando Alcibiade aveva tra i 18 e i 20 anni, si decise a incontrare il suo bellissimo erastés. Era un giovane vip, ma anche un figo, i cui moltissimi amanti, sebbene pieni di sé, fuggivano, perché superati in arroganza. Socrate aveva avuto fino ad allora l’opposizione del suo daimon per incontrarlo, ma, sciolto ormai l’impedimento, volle vederlo e parlargli. Questo incontro è ripreso in un dialogo che è attribuito, pur con qualche dubbio, a Platone (Plat., Alcibiade A). Il maestro dei giovani, Socrate, conveniva che Alcibiade si sentiva sicuro di non avere bisogno di nessuno e per nessuna cosa, a cominciare dal corpo per finire all’anima: «Credi in primo luogo di essere bellissimo e imponente di aspetto, – è chiaro a vedersi a chiunque che su questo non menti -, poi sei di una delle stirpi più prospere della città, che è la più grande dell’Ellade, poi per parte di padre hai amici e parenti in grandissimo numero e tra i più nobili», e non di meno ne aveva da parte di madre.
Ma soprattutto aveva un tutore di eccezione, il democratico Pericle, «che non solo in questa polis può fare tutto ciò che vuole, ma pure in tutta l’Ellade e fra i barbari», cioè oltre che nelle città della federazione panatenaica, anche negli stati extracomunitari. Che poi Alcibiade fosse fra i più ricchi non lo inorgogliva per nulla. Ora questo bel figlio non si contentava di vivere soddisfatto degli immensi privilegi di rango e di casta, ma si era lasciato prendere dall’ambizione, di avere un grandissimo potere sulla città, ma non solo, sull’Europa e l’Asia, anzi non avrebbe voluto vivere, «se non riempisse del suo nome e della sua potenza tutti, per così dire, gli uomini». Ecco, da quello che Socrate ha capito, egli si è messo in testa di «farsi avanti tra non molto in mezzo per dare dei consigli agli Ateniesi», cioè come meglio comprendiamo nel linguaggio odierno si era fissato di “scendere in campo”. La stessa opinione di improvvisazione, spinta dall’ambizione, espresse Tucidide, che riteneva che, «immaturo allora per età, come in altra città, ma onorato per il prestigio degli antenati, sentiva inoltre offesa la sua ambizione e umiliato il suo onore dagli Spartani» (Thuc. V, 43). Così con quella sua prerogativa che gli derivava dalla particolare funzione iniziatico-paideutica della eccezionale relazione tra erastés ed erómenos, viva ad Atene e soprattutto a Sparta, Socrate-Platone cercò, secondo il metodo ermeneutico, di fargli partorire la verità, di guidarlo alla conquista del giusto e dell’utile, che deve essere alla base di chi intende governare una città. Da questo originale dibattito sulle capacità di governare estrapoliamo qualche riflessione in questi anni di improvvisazione in cui tutti hanno la pretesa di scendere in campo, dai ricchissimi ai bellissimi, agli istrioni che promettono annullamento delle tasse e servizi per tutti, con discorsi in piazzette e nei bar virtuali. Il tragico-comico è che si definiscono “cinguettii” (twitters, come dire “cicaleccio”?), senza alcuna competenza di politica economica e tout court, di finanza, di strategie sociali, una classe di teatranti Paflagoni e Agoracriti, degni del celebre Demo credulone e corrotto, come lo bollò Aristofane (Cavalieri, senza allusioni), nei suoi tempi di demagogia populistica (se Parma è additata come laboratorio, ci aspetta un altro tragico ventennio, dopo gli ultimissimi due) «Che l’autore del consiglio sia povero o ricco non fa differenza per gli Ateniesi, qualora deliberino sulla salute, ma cercheranno che sia un medico il consigliere». «Dunque ti rendi conto che gli errori nell’azione derivano anch’essi da questa ignoranza, quella di credere di sapere pur non sapendo?». «Poiché non sono né coloro che sanno né coloro che sanno di non sapere chi altro resta se non coloro che non sanno, pur credendo di sapere?». «Per prima cosa allenati, carissimo, e impara ciò che occorre imparare per entrare in politica, non prima». La polis «non ha bisogno né di mura né di triremi, né di cantieri navali, se vuole essere felice, né di popolazione né di grandezza, senza la virtù». Alcibiade per la sua sconfinata ambizione condusse Atene ad alleanze disastrose, la spinse ad una guerra finale con Sparta nella tragica spedizione in Sicilia e diede il colpo di grazia alla democrazia ateniese. I guai cominciarono nel momento di grande potenza economica e politica e di splendore culturale, la tanto decantata età di Pericle, con l’accusa contro Alcibiade della mutilazione delle Erme, seguita dall’ostracismo, fino al tradimento con la sua fuga in Persia, ove morì trafitto come un san Sebastiano sotto un nugolo di frecce. Se i tecnici sono uomini di parte e che parte, appoggiati da un parlamento di parte, meglio che resti la politica e l’ideologia, che assuma senza paraventi ed alibi le responsabilità in prima persona.
PS. Un invito a leggere il dialogo. Per i più coraggiosi l’invito si estende alla Politeia platonica, per qualche riflessione datata, ma autorevole, sul “buon governo”.