La Sicilia nel Prometeo di Eschilo

(Carmelo Fucarino)

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                       Peter Paul Rubens 1610-11 – Philadelphia Museum of Art

Strana genia quella nata da Urano e Gea, il Cielo e la Terra, fra tutti il grande Japeto. Questi, congiuntosi con una Oceanina, cioè una figlia di Tethyde e del più antico titano Oceano, non è chiaro se Asia o Clymene, generò Atlante, Prometeo, “Colui che apprende prima”, ed Epimeteo, “Colui che apprende dopo”. Fra questi esseri mostruosi, che ebbero nome di Titani, Atlante, «che del mare tutto conosce gli abissi e tiene le grandi colonne, che tengono intorno terra e cielo» (Odiss, I, 52-54), così punito da Zeus. Esiodo ci narra la sventura dell’imprevidente Epimeteo, che lasciò fuggire sulla terra tutti i mali dall’ingannevole vaso di Pandora (“La tutta doni”), salvando a stento Elpìs, la Speranza. Anche Prometeo ebbe una tragica storia per avere ingannato Zeus con ossa coperte di grasso e per avergli rubato il fuoco che il re degli dei aveva sottratto agli uomini: quell’aquila mai sazia che fruga nel suo fegato inesauribile e lo divora in eterno. Tutti questi miti narrò Esiodo, il teologo della beotica Ascra nella Teogonia e in Le Opere e i giorni.  Poi, tra il 472 e il 468 a . C., nel teatro dorico siceliota di Siracusa un greco di Eleusi, la sede del santuario dei misteri, ai quali forse era iniziato (Aristoph., Le rane, 886-887, «Demetra, che hai educato il mio cuore, che io sia degno dei tuoi misteri»), giunto su pressante invito del tiranno Ierone, offrì due eventi grandiosi di forte impatto ideologico e politico.

Presentò al pubblico siceliota il dramma I Persiani, che gli Ateniesi avevano visto poco prima nel teatro di Dioniso in esaltazione della libertà ellenica e con il quale aveva vinto gli agoni tragici. Il tema libertario era in sintonia con il progetto politico dei Dinomenidi e poteva essere riusato in chiave patriottica in seguito alle loro vittorie sui barbari, i Punici ad Imera nel 480 e gli Etruschi a Cuma nel 474. Non solo, ma Eschilo compose un dramma nuovo di zecca, le Etnee, in celebrazione della rifondazione dorica di Aitna, della quale Ierone nel 470 aveva nominato signore il figlio Dinomene. Dell’evento si era occupato un altro grande, il poeta corale Pindaro, con la Pitica I, dedicata a Ierone di Etna vincitore nella gara del carro.  Proprio in questa fase del primo viaggio in Sicilia, certamente dopo l’eruzione dell’Etna del 476-475 a. C., Eschilo scrisse una strana tetralogia, della quale ci è pervenuto il solo Prometeo desmótes o Legato o Incatenato (di soli 1094 versi, per W. Schmid apocrifo). Scomparsi nel naufragio medioevale il Prometeo portatore di fuoco e Prometeo liberato, ignoto il dramma satiresco. Già nel prologo Kratos ci presenta questa figura, la più grandiosa del mito antico, il più completo e singolare degli evergeti o benefattori, più dello stesso Eracle: «costui alle rocce sospese sull’abisso, il temerario, devi legare con catene inviolabili in ceppi infrangibili» (vv. 4-6). La rhesis di Prometeo sui doni elargiti agli uomini è un inno alla beneficenza (vv. 443-506), il lungo elenco di tutti i beni che l’uomo ha avuto da lui. Il fuoco sarebbe proprio una inezia, se confrontato con la piena entrata nella civiltà: «in breve parola sappi tutti i beni posseduti: tutte le arti ai mortali da Prometeo» (vv. 505-06). In risposta all’affetto e alla premura di Oceano Prometeo gli consiglia di stargli lontano, perché ha visto la punizione di Tifeo che voleva rovesciare con la violenza la tirannide di Zeus, colpito dalla folgore. Omero collocò il letto di Tifeo nella terra degli Àrimi, monti vulcanici non identificabili, ove la terra gemeva cupa sotto l’ira di Zeus folgoratore (Iliade, II, 782-83). Così Esiodo cantava che Zeus, «lo scagliò, irato nel cuore, nel Tartaro vasto», Tifeo dalle cento teste di serpe (Hes. Teog. 820-868). Eschilo invece fa dire a Prometeo: «e ora corpo inutile disteso giace vicino allo stretto marino, oppresso sotto le radici dell’Etna, mentre Efesto, posto sulle alte cime, forgia il ferro rovente. Ma un tempo da lì eromperanno fiumi di fuoco divorando con ferine mascelle gli ampi campi della Sicilia dai bei frutti. Siffatta ribolle ira di Tifeo con infuocati dardi di insaziabile tempesta spirante fuoco, sebbene carbonizzato dal fulmine di Zeus» (363-372).  Probabilmente si tratta di una profezia post eventum, dell’eruzione del 476 a. C., ma di grande impatto emotivo per spettatori che sentivano ancora i momenti di terrore di quei giorni di fiamme delle quali lo stesso Eschilo poteva forse ancora costatare gli effetti sulla piana di Catana. L’eruzione fu tanto celebre e disastrosa che Tucidide, registrando quella avvenuta nel sesto anno di guerra, cioè quella del 426 a. C., la richiamò alla memoria: «colò intorno alla stessa primavera [del 426 a. C.] un torrente di fuoco dall’Etna, come anche prima, e devastò una striscia di terra dei Catanesi, che abitano sotto il monte Etna, che è il più grande monte della Sicilia. Si dice che questa eruzione sia colata cinquanta anni dopo la prima, in tutto tre eruzioni sono avvenute da quando la Sicilia è colonizzata dagli Elleni» (III, 116). Se si calcolano cinquanta anni prima, la precedente eruzione sarebbe avvenuta proprio il 476 a.C.

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Rockefeller Center – New York City, New York – Foto Fucarino

‘Prometheus’ Sculpture by Paul Manship – Prometeo o Lucifero?

"Prometheus, teacher in every art, brought the fire

that hath proved to mortals a means to mighty ends."

L’innovazione mitologica rispetto alla tradizione epica di Omero ed Esiodo fu recepita nel 470 a. C. anche da Pindaro nella Pitica I (con il celebre incipit di invocazione all’aurea forminx, al suo magico suono), in cui riprende il luogo della condanna e l’eruzione: «E ora le rive ardue sopra Cuma che cingono e la Sicilia schiacciano il suo villoso petto; Etna innevato, pilastro celeste, nutrice dell’acuto inverno lo domina; sgorgano purissime sorgenti di fuoco inaccessibile dai recessi, fiumi di giorno che versano ruscelli infuocati di fumo, mentre la notte la fiamma purpurea rotola pietre verso la pianura profonda del mare con un ruggito. Quel serpente scaglia i più terribili getti di fuoco, prodigio stupendo a vedersi, meraviglia anche a sentirsi dai presenti. Costui è incatenato nelle vette di nere foglie e nella piana di Etna, il giaciglio irto graffia tutto quanto il suo corpo supino» (vv. 33-54). Così ancora cantò Pindaro nell’Olimpiade IV per Psaumis di Camarina: «o figlio di Kronos che il peso tieni di Etna ventosa su Tifeo tremendo dalle cento teste» (6-7; pure in fr. 94). Tutto quindi sembra rimandare ad una messa in scena della tetralogia in terra siceliota e a Siracusa, ove ora sarà rappresentato con un singolo dramma e con lingua e realizzazione diversa dopo 1540 anni o giù di lì. Ancora rivive in terra siceliota la voce di quell’ateniese che lasciò, si dice, le sue ossa a Gela nel 456 a. C. nel suo secondo viaggio in Sicilia (Vita di Eschilo, Val. Max. IX, 12) Ael., Nat. Anim. VII, 16). La più grande guida turistica dell’antichità riportava sulla sua tomba l’epigrafe: «Eschilo di Euforione, Ateniese, questa tomba morto racchiude, / a Gela rigogliosa di messe, / il suo glorioso ardimento potrebbe dirlo il bosco di Maratona, / ed i chiomati Persiani che ben lo sanno» (Paus., Guida, XLI, 2, Ath. 627 d). E la leggenda vi costruì sopra l’enigma che recitava «dal cielo sarai colpito e morirai» e realizzò la profezia, l’ingenium dell’aquila che per rompere il carapace di una tartaruga la lasciò cadere sul suo capo (Plin., Nat. Hist, X, III, 7, huius ingenium est et testudines raptas frangere e sublimi iaciendo, quae fors interemit poetam Aeschylum, praedictam fatis, ut ferunt, eius diei ruinam secura caeli fide caventem).

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