Il mistero svelato: Realtà e Fiaba in un romanzo di Rosa Maria Ponte
( Antonio Martorana)
La cosa che più intriga, del romanzo di Rosa Maria Ponte "Nel cuore della notte" (Palermo, La Zisa, 2011) è la contaminazione di realtà e fantasia, di minimalismo quotidiano ed atmosfere di sospeso incantesimo, di naturale e preternaturale, nei piani multipli in cui si svolge l’intensa vicenda esistenziale di Barbara. Tale compresenza, in un perfetto amalgama, di elementi così eterogenei, è possibile grazie all’applicazione alla materia del narrare del modulo di trasfigurazione della fiaba. Lungi dal configurarsi, però, come tentativo di pura evasione, quella soluzione si rivela, analogamente a quanto accade nelle poetiche surrealiste, un valido elemento per catturare una dimensione recondita del reale.
Senza incorrere nella claustrofobia delle unità aristoteliche, che impongono l’ordinata scansione cronologica e la rigorosa collocazione spaziale, l’Autrice può instaurare un originale rapporto tra psichismo e temporalità, convertendo la realtà in percezione interiore. Gioca molto, in questo ludus, che porta al riassorbimento del passato in un continuo presente, il recupero del tempo perduto sull’onda di ricordi, talora veicolati da sensazioni immateriali, ma di estrema potenza evocativa. Così avviene per il pavimento coperto di petali di rosa della stanza da letto di Donna Franca Florio, così avviene anche per la combinazione di odori e sapori delle succulente pietanze assaporate nell’infanzia (il pane cotto nel forno a legna delle zie, le olive verdi, le focacce condite, i dolci fatti in casa). Sono momenti, questi, che sembrano inverare quanto afferma Proust in un suggestivo passo della Recherche: "Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle case, soli e più fragili, ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli. l’odore e il sapore rimangono a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo". L’impianto narrativo, che si avvale di una cifra stilistica originale, dove il registro parlato si alterna a castoni fiabeschi e a felici incursioni nel lirico e nell’onirico, è dunque quello di una moderna fiaba, specularmente costruita in sintonia con la celeberrima novella di Oscar Wilde, "Il Principe Felice". Dato il suo assetto strutturale, è possibile cogliervi quella che, in base ad un approccio coerente con la metodologia del grande folklorista russo Vladimir Propp, si riscontra come una costante dell’universo fiabesco, e cioè il passaggio da funzioni inizialmente negative (qui la malattia di Barbara giunta ormai all’ultimo stadio, o l’allontanamento di Giulio) a funzioni che ribaltino totalmente quella negatività (l’amore per la letteratura e la traduzione, vera zattera salvifica cui la donna si aggrappa per esorcizzare la morte, o l’arrivo, nel cuore della notte, dell’ospite, che, sollevando in lei un’improvvisa ondata di felicità, le comunica che non andrà via senza di lei).Metafora della nostra Erleibnis in cui confliggono il sentimento tragico dell’esistere e l’aspirazione all’assoluto, Barbara mi sembra creatura appartenente a quel mondo dei vivi descritto da Joseph Conrad nella nota posta a premessa del suo romanzo "Linea d’ombra": "il mondo dei vivi, qual è, non è certo privo di meraviglie e misteri, che influenzano le nostre emozioni e la nostra intelligenza in modi così in spiegabili da giustificare quasi il concetto della vita come di una condizione incantata". L’esperienza di Barbara matura entro il cerchio magico in cui l’ha collocato l’Autrice per preservarla dall’onda d’urto delle avversità della vita, la sua grande risorsa è la disponibilità ad amare, sia che si tratti della letteratura, sia che si tratti dell’uomo dei suoi sogni, ed è proprio tale disponibilità a farle infine ritrovare, al termine di quello che André Breton definisce un lungo "inseguimento", un "senso" nella sua avventura esistenziale. Concludo condividendo pienamente il rifiuto, da parte dell’Autrice, di una collocazione nell’ambito della cosiddetta narrativa "al femminile", espressione che io stesso forse incautamente ho adoperato, accogliendo la tendenza diffusa specie nei consuntivi storico- letterari, di etichettare determinati fenomeni. Si tratta di un intento classificatorio d’ordine meramente pratico, ma l’imbarazzo mostrato dall’Autrice ci induce a riflettere sul fatto che sotto quella espressione si cela una pregiudiziale discriminatoria, come a voler relegare quella particolare produzione legata al genere, su un piano subalterno rispetto alla grande narrativa.
Se non si parla di narrativa "al maschile", non ha senso parlare di narrativa "al femminile". La presentazione di questo romanzo, per la sua piena valenza critica,è dunque l’occasione per l’abbattimento di uno steccato che, come avverte Toni Iermano, è discriminante, "iperdatato" e francamente irragionevole.