«Tutta Parigi impazza… è carnevale…» (La Traviata, Atto, III, scena III)
(Carmelo Fucarino)
Primo proemio. Ancora una protesta per la gestione artistica del Teatro Massimo e per gli sconquassi e il genocidio prodotti dalla legge Bondi (decreto sulle fondazioni liriche convertito in legge 2010 in una insolita seduta parlamentare, convocata nel giorno della festa patronale di San Pietro e Paolo a Roma, stilato dal ministro Sandro Bondi, dimessosi o dimissionato il marzo 2011). Eppure sul frontespizio vanamente si abbaia alla luna con il monito di Ernesto Basile del 1897: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». C’è da dire che anche allora re Umberto, da buon nordista, ebbe a lamentare: «Palermo aveva forse bisogno di un teatro così grande?». In effetti è il più grande teatro lirico italiano per estensione e il terzo in Europa.
Secondo Proemio. La prima avviene nell’ultimo giorno di Carnevale. Senza allusione ai derelitti tempi moderni, quando ancora per i furboni e pure per i poteri forti «tutta Parigi impazza… è carnevale», mentre si preannunziano Ceneri pesanti per il popolo italiano, in nome del quale si governa e giudica, falcidiandolo con nuovi fantasiosi balzelli e con disoccupazione. Serata da record per il Massimo di Palermo che dal debutto del 1856 ha raggiunto la 100° edizione, indice della popolarità dell’opera. E non poteva mancare dopo il recente Il trovatore (18 ottobre 2011), essendo parte della “trilogia popolare”. assieme al gettonatissimo Rigoletto. Eppure il pasticcio romantico, tratto dall’altrettanto celebre pièce La dame aux camélias (La signora delle camelie) di Alexandre Dumas figlio, con la sua ascendenza scapigliata per il tema bohemien della donna perduta e della tisi redentrice (La bohème di Puccini, 1896), al suo debutto alla Fenice di Venezia il 6 marzo 1853 fu una débâcle integrale, si disse per i mediocri interpreti o addirittura per il tema scabroso. I patiti dell’opera ricorderanno la recente produzione palermitana del 23 febbraio 2007 con l’allestimento della Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino, la direzione di Stefano Ranzani, con la regia di Cristina Comencini e le scene di Paola Comencini. Questa edizione, altra produzione della fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, che passerà alla storia del Massimo come ‘La Traviata degli specchi’, la parte del leone l’ha fatta l’‘architetto dell’immagine’, il ceco Josef Svoboda, morto nel 2002, che realizzò questa scenografia nel 1992 allo Sferisterio di Macerata, e vinse il Premio Abbiati dell’Associazione Nazionale Critici Musicali. Ora è riproposta con la regia del regista tedesco Henning Brockhaus, osannato e premiato. Se si voleva strabiliare lo spettatore, vi si è riusciti, anche se non so quanto frastornanti sia stati questi stupendi piani riflettenti, le immagini dei fondali dipinti in un accavallarsi con quelle del sipario, specchio gigante inclinato di 45 gradi, che vorrebbe duplicare o triplicare l’azione scenica con piani spaziali e esistenziali diversi. Per la tecnica dello stupore l’intrecciarsi di realtà e di immagine, di movimenti, di ritmi e di colori ha dovuto sicuramente avere un grande impatto emotivo. Accurata e possente la direzione del maestro Carlo Rizzi, come trascinante la realizzazione dei vibranti corali. Convincente la Violetta della professionista di lungo corso, la soprano Mariella Devia, come il Germont di Simone Piazzolla. Ma è soprattutto l’azione che non dà respiro: l’opera è un susseguirsi ininterrotto e trascinante di incanto musicale, tanto che sarebbe impossibile seguire tutti i movimenti. Si può solo redigere un elenco sommario di temi che un certo pubblico un tempo canticchiava, dal primo atto Libiamo ne’ lieti calici (Violetta, Alfredo e coro), Un dì felice, eterea (Alfredo e Violetta), È strano! È strano…Follie! Delirio vano è questo…Sempre libera (Violetta), dal II atto De’ miei bollenti spiriti (Alfredo), Pura siccome un angelo (Germont e Violetta), Che fai?/ Nulla / Scrivevi?… Amami Alfredo (Alfredo e Violetta), Di Provenza il mar, il suol (Germont), Noi siamo zingarelle (Coro), Mi chiamaste? Che bramate? (Alfredo e Violetta), dal III atto Teneste la promessa (Violetta), Parigi, o cara (Alfredo e Violetta), Parigi, o cara Gran Dio! Morir sì giovane (Violetta). E l’ossessione del leit-motiv che rinnova incessante l’emozione e la tenerezza nostalgica del preludio del terzo atto. Non c’è un solo rigo musicale che non sia entrato nella fantasia comune e nei ritmi delle melodie mentali di tutti. Ed è sperabile che il pubblico si sia lasciato rapire da esse, chiudendo qualche volta gli occhi, escludendo dal capolavoro il barocchismo delle trovate, soprattutto l’immagine che in questo caso predomina ed esclude spesso la vera protagonista che è la creazione musicale. Verdi era un compositore di opere, lui è la geniale invenzione musicale, anche al di fuori del libretto dell’esperto Francesco Maria Piave, testo che mostra i suoi anni e i suoi ninnoli troppo antiquati e perduti, la sua amistà, i fia e i pria. Eppure chi ascolta quel mirabile inno simposiaco, che rievoca nell’attacco gli skolia greci, celebri quelli di Alceo e più tristi quelli di Asclepiade, non bada alle parole impolverate:
Libiam ne’ lieti calici
che la bellezza infiora,
e la fuggevol ora
s’inebri a voluttà.
Libiam ne’ dolci fremiti
che suscita l’amore,
poiché quell’occhio al core
onnipotente va.
Poi alla fine a supremo stupore quel coup de théâtre di un genio dello spettacolo che già mi preannunziava un fotografo, la completa sympatheia, la compartecipazione di spettatori nella passione scenica, quando si fondevano sullo sfondo del palcoscenico, la realtà degli attori e dell’orchestra, gli spettatori sotto le luci dell’anfiteatro dei palchi, un abbraccio completo a 360° per suggellare quella scena desolata di addio alla vita.