James Hillman, l’Anima, gli eroi e gli dei greci
(Carmelo Fucarino)
Se ne va ad 85 anni un altro interprete e prosecutore di Jung, quella grande scia di intelletti che indirizzarono la psicologia, la psicoanalisi in particolare, e in estensione il pensiero europeo, a partire dalla dicotomia di indirizzo tra Freud e Jung. Se ne va in una consapevole apathia stoica, nella lucidità del dolore e della fine: «Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere».
In effetti, da analista nel 1959 al C.G. Jung Institute e pure Director of Studies fino al 1969 rivide nel 1970 i limiti di azione del terapeuta, freudiano o junghiano, nei confronti del paziente e sviluppò pertanto la nuova “terapia delle idee”, additando l’originale itinerario già aperto nel 1964 con Senex and Puer (Senex et puer, Venezia 1973, 19792), quello della “psicologia archetipica” o “archetipale”. Poi la sua traiettoria verso regioni inesplorate e conquiste rivoluzionarie, segnate da tappe graduali: Il mito dell’analisi, Milano 1979, 19913 (The Myth of Analysis, 1972); Re-visione della psicologia, Milano 1983 (Re-visioning Psychology, 1975); Anima: Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989 (Anima: an Anatomy of a Personified Notion, 1985); L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Milano 1993 (Plotinus, Ficino and Vico as Precursors of Archetypal Psychology; The Thought of the Heart; Anima mundi). Da forme universali e simboli pre-esistenti alla psiche individuale gli archetipi junghiani sono da lui letti e rivisti in altro modo, come «i modelli più profondi del funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo. Essi sono le immagini assiomatiche a cui ritornano continuamente la vita psichica e le teorie che formuliamo su di essa». Escono perciò dall’ambito medicale terapeutico per svilupparsi nell’anima: «La terapia, o l’analisi, non è solo qualcosa che gli analisti fanno ai pazienti, essa è un processo che si svolge in modo intermittente nella nostra individuale esplorazione dell’anima, negli sforzi per capire le nostre complessità, negli attacchi critici, nelle prescrizioni e negli incoraggiamenti che rivolgiamo a noi stessi. Nella misura in cui siamo impegnati a fare anima, siamo tutti, ininterrottamente, in terapia».Per tracciare un bilancio della sua vita, possiamo dire con lui stesso: «Se “durare” significa qualcosa d’altro e di più che superare in durata le aspettative statistiche, allora che cos’è che “dura”? Che cos’è quel “qualcosa” che permane e tiene duro? Che cosa potrà mai durare attraverso tutte le vicende dì una lunga vita, rimanendo costante dall’’inizio alla fine? Né il nostro corpo né la nostra mente rimangono identici; corpo e mente non possono evitare il cambiamento. Ciò che invece sembra rimanere identico a se stesso per tutto il tempo e fino alla fine è una componente psicologica costante che ti segnala come un essere diverso da tutti gli altri: il tuo carattere individuale. Tu.» (La forza del carattere, Milano 2000). Sarebbe troppo arduo indicare la traiettoria della sua “psicologia archetipica” e dei suoi geniali sviluppi, data la lunga attività diluita in una vasta serie di opere. A me interessa segnalare la sua rilettura del mito contro le risibili applicazioni freudiane su di esso e sugli eroi greci. Edipo o Elettra erano altra cosa dall’invenzione del “complesso”, esistevano in quanto divinità e tali erano sentiti prima che fossero degradati ad eroi delle saghe tebana e troiana. Perciò il percorso di Hillman di pensare “col cuore” inizia con il Saggio su Pan (Milano 1977, 19822), espressione dell’orrore sacro, prosegue con la scoperta della bellezza inscindibile dalla bontà (il kalokagathòs, tradotto nel costume europeo con “gentiluomo”) in La giustizia di Afrodite (Capri 2008), quella stessa bellezza che può essere imperativo categorico del Governo dei popoli (Politica della bellezza, Bergamo 1999). La rinascita degli dei, non letteraria o filosofica, vuol essere il ricupero del politeismo (Il nuovo politeismo: la rinascita degli dèi e delle dee, Milano 1983), un policentrismo individuato da Umberto Galimberti, fino al rifiuto della “patologia” junghiana e alla necessità delle figure mitologiche (La vana fuga dagli dei, Milano 1991). Perciò Calasso precisa in un’intervista a proposito della ridicola “terapia degli dei”: « La cosa importante è stata il suo modo di rovesciare il rapporto con il mito in genere: non pretendere da psicoanalista di spiegare il mito, che sarebbe stata un’operazione ingenua. E’ il mito che spiega noi. e Hillman ha seguito questa idea con la stessa analisi, dove ad agire – lui dice – è il mito apollineo». Anche se, si deve dire, accentua, soprattutto dal ritorno in America, la manifestazione dei miti nella società moderna, sia nell’esperienza dei singoli sia nelle visioni collettive. Una visione che è tuttavia assai diversa dalla mitizzazione di personaggi o oggetti ritenuti straordinari. È l’individuo che mantiene nella sua anima gli archetipi e li vive materialmente, non il mito del cocchio, ma quello dell’auriga, non della Ferrari, ma del centauro. Gli dei non sono scomparsi, nonostante la nostra credenza e continuano a vivere nella nostra anima universale e collettiva. Perciò giunge al limite estremo di scoprire Ermes fra noi: «Ermes-Mercurio oggi è dovunque. Vola per l’etere, viaggia, telefona, è nei mercati, e gioca in borsa, va in banca, commercia, vende, acquista, e naviga in Rete. Seduto davanti al computer, te ne puoi stare nudo, mangiare pizza tutto il giorno, non lavarti mai, non spazzare per terra, non incontrare mai nessuno, e tutto questo continuando a essere connesso via Internet. Questa è Intossicazione Ermetica».