LA STORIA DEL MERIDIONE IN TELEVISIONE
( Raimondo Augello)
Noi meridionali siamo mafiosi per corredo genetico? Sembrerebbe che i tempi di Lombroso siano lontani e che si sia capito come mafia e camorra siano fenomeni storico-sociali assai complessi. Qualche volta, però, si direbbe che ce ne si dimentichi e tornino i pregiudizi più stantii. Questa, per lo meno, l’impressione che come telespettatore ho ricevuto ad agosto di quest’anno seguendo una trasmissione (per altro di solito apprezzabile) di Piero Angela. Nel corso di tale puntata, infatti, lo storico Alessandro Barbero – ospite fisso della trasmissione – ha cercato di dare conto, in pochi minuti, dell’origine del fenomeno camorristico a Napoli. In buona sostanza, il nostro ‘esperto’, partendo da un’analisi della Napoli del ‘600 dei tempi di Masaniello, arrivava a sostenere che sin da allora nella città partenopea fosse presente una matrice culturale di tipo camorristico. A suffragio della tesi, due riferimenti dotti. Il primo a una novella del Boccaccio (Andreuccio da Perugia) ambientata nei bassifondi di Napoli, nel bosco e sottobosco dei cui vicoli si muove un’umanità perduta e dedita al crimine. Dunque già da allora napoletani camorristi o comunque delinquenti? Se così fosse, antesignani della malavita sarebbero i personaggi di tre quarti della letteratura mondiale: per esempio dei grandi narratori del naturalismo francese ottocentesco, da Flaubert a Balzac, da Zola a Maupassant. Diremo dei Francesi che sono “naturalmente” disposti al crimine anche loro? Non meno opinabile il secondo riferimento alla società napoletana del ‘600. In quell’epoca, infatti, come è noto, l’Italia intera (Napoli come Milano) era sotto il malgoverno spagnolo: uno Stato lontano, se non del tutto assente, che faceva sentire la sua presenza solo con un carico fiscale estremamente gravoso (al Sud sarà così e sempre più dall’arrivo dei Savoia in poi, Giovan Battista Vico parlerebbe di corsi e ricorsi storici!), aveva lasciato il Belpaese nel disordine e nell’assenza di leggi che venissero davvero rispettate. Insomma, un vuoto di potere nel quale era inevitabile che trovassero spazio di manovra i pre-potenti, i signorotti locali e i loro sgherri, sorta di mafiosi ante litteram, insomma l’esatta fotocopia della società lombarda descrittaci da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, con il suo corollario di bravi, dediti di mestiere all’intimidazione e di figure come don Rodrigo e l’Innominato pre-conversione, che rappresentavano per quella società la vera legge.
Per rendere ancora più persuasivo il suo excursus, Barbero volge lo sguardo verso tempi più recenti ed ecco la chicca: a confermare l’idea lombrosiana della natura camorristica – e dunque deviata – della psiche meridionale ci racconta che, quando dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte la fortezza di Fenestrelle si riempì di soldati napoletani, questi, dediti al gioco d’azzardo, erano controllati da carcerieri anch’essi napoletani (figuratevi i Piemontesi che mettono dei conterranei a guardia di soldati da loro assai temuti e di cui riconoscevano lo strenuo eroismo!) che riscuotevano una sorta di “pizzo” su quelle giocate: insomma, terroni erano e terroni rimasero, pure in punto di morte! Ma ci rendiamo conto di cosa evochi la fortezza di Fenestrelle? Proprio nell’imminenza del centocinquantenario dell’unità, Raistoria, con la partecipazione di parecchi storici e con il ricorso a numerosi documenti anche d’archivio, le ha dedicato una puntata commovente. Si tratta del più famigerato tra i lager (ve ne erano parecchi: ad Alessandria, San Maurizio Canavese, Lodi, Milano, Bergamo, la fortezza di Priamar presso Savona, Bologna, Parma e tanti altri ancora) che i Savoia all’indomani della annessione del Sud allestirono per detenere – in condizioni che in base alle cronache del tempo (sinora gelosamente tenute nascoste al grande pubblico) potremmo definire disperate – parecchie decine di migliaia ( le stime più attendibili parlano di centinaia di migliaia) di meridionali che si opponevano alla brutalità di quella annessione e a ciò che ne era seguito. E non si trattava solo di soldati borbonici che avendo giurato fedeltà al proprio re e alla propria patria non volevano rinnegare quel giuramento per passare ad un altro esercito, come avrebbero voluto i Savoia, ma anche di semplici contadini, di donne, bambini, preti soprattutto, che relegati in una totale promiscuità scontavano la colpa di essere magari solo sospettati di avere a vario titolo sostenuto la causa della resistenza dei partigiani delle Due Sicilie, quelli che come scrive Antonio Gramsci “storici salariati hanno infamato con il nome di briganti”. Ebbene, il più famigerato di questi lager fu proprio Fenestrelle, imponente struttura militare posta sulle Alpi torinesi tra i 1300 e i 2000 metri, dove come documentato anche da Raistoria la vita media non superava mai i tre mesi (laddove non ci si suicidava prima, come accaduto in numerosissimi casi), dove gli infissi erano stati divelti per rendere ancora più atroce la sofferenza di quei poveretti malvestiti, abituati “al dolce clima delle loro contrade d’origine” come si leggeva su “Civiltà Cattolica” (i numerosi certificati di morte dei prigionieri mostrati su Raistoria e consultabili su Internet segnalano nella massima parte dei casi come causa di morte “crisi respiratoria”, morti di freddo, in altre parole), dove si entrava accolti da una scritta posta sulla cancellata d’ingresso che recitava “ognuno vale non per ciò che è, ma per ciò che produce” (ci ricorda qualcosa? ) e si usciva da morti gettati nella calce viva (i forni non li avevano ancora inventati!) contenuta in un’apposita vasca ancora visibile alle spalle della chiesetta della fortezza. Recentemente l’amministrazione di Fenestrelle ha sentito il dovere di dedicare ai soldati borbonici morti in quell’inferno una lapide a conclusione di una toccante cerimonia documentata dal TG 3 Regione Piemonte. Nella targa si ricorda l’eroismo di uomini che, si dice , tra indicibili sofferenze preferirono morire piuttosto che rinnegare il proprio giuramento. “I pochi che sanno si inchinano”, conclude l’iscrizione: ma il peccato di molti, anche ‘esperti’ , non è il non sapere, bensì il non inchinarsi. Cosa direbbe uno storico italiano se un collega tedesco, prima ancora di illustrare al grande pubblico le atrocità di cui furono fatti oggetto i soldati italiani prigionieri in Germania dopo l’8 settembre per il semplice fatto che si rifiutavano di passare dalla parte dei Tedeschi, si arrogasse il diritto di giudicare come mafiosi gli Italiani sulla base di chissà quale pettegolezzo riferito alla condotta di quei prigionieri? Purtroppo non ha perduto attualità il saggio pubblicato qualche anno fa da Denis Mack Smith, La storia manipolata, in cui l’autore anglosassone indica proprio nella mistificazione operata nel corso dei 150 anni da parte della storiografia ufficiale sui fatti seguiti all’annessione del Regno delle Due Sicilie un esempio paradigmatico e di portata mondiale sinora ineguagliata di come i vincitori manipolino a loro vantaggio la realtà dei fatti.
Pubblicato dal periodico messinese CENTONOVE, n.23 del mese di settembre