E avanti a lui tremava tutta Roma!

(Carmelo Fucarino)

image

Foto per gentile concessione Ufficio stampa Teatro Massimo

Così l’ultima frase celebre di Tosca ( II atto, scena V).  L’opera è una delle più visitate nei moderni repertori teatrali tanto che romanze, ritmi e addirittura frasi vivono nell’immaginario collettivo. Chi non si è commosso all’udire le tre celebri romanze, una per atto, che stemperano in funzione lirica la concitazione della vicenda, Recondita armonia, Vissi d’arte e Lucean le stelle? Eppure Tosca, melodramma in tre atti, non ebbe un avvio dei più felici, alla prima di inizio secolo il 14 gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma, perché deluse gli aficionados e una parte della stampa, in quanto non in linea con la recente La Boheme. Per di più l’arrivo in ritardo di alcuni spettatori, alla presenza del presidente del Consiglio Pelloux e della regina Margherita, seminò un certo nervosismo in sala e nel direttore d’orchestra che dovette interrompere e ricominciare dall’inizio. Anche l’autorizzazione di Victorien Sardou fu concessa a Giulio Ricordi per il musicista Alberto Franchetti, allora sulla cresta dell’onda per l’exploit del suo Cristoforo Colombo. Presente all’approvazione dell’abbozzo di Illica a Parigi, Verdi confidò in seguito al suo biografo che, se non fosse stato per l’età, avrebbero voluto musicarla lui e se ne comprende il perché. Dopo che Franchetti ebbe rinunziato, si avviò il progetto con la poco convinta adesione di Giacosa che riteneva il soggetto poco poetico e attribuiva il successo del dramma ad una straordinaria Sarah Bernhardt che il 24 novembre 1887.lo aveva portato al trionfo al Théatre de la Porte-Saint-Martin di Parigi e all’inizio del 1889 al Teatro dei Filodrammatici di Milano. Tosca fu l’ultima recita della Callas il 1965, al Covent Garden. Troppo nota la vicenda, perché se ne debba parlare. Si può solo riflettere sul tema della rivoluzione romana e sull’interesse dei Francesi per un episodio di esaltazione napoleonica. Al di là dell’allusione storica e della condanna del sistema reazionario che comminava condanne sommarie, il cinico Scarpia ha una profondità psicologica che ci coinvolge e sconvolge, quel baratro di demoniaco che è in tutti noi, nell’uomo in quanto tale. L’atmosfera, la chiesa di Sant’Andrea della Valle, l’Angelus, il Te deum, tutto richiama il divino. Eppure Scarpia è consapevole della sua abiezione e la rimarca già alla fine del primo atto (scena 9). Dopo l’inganno del ventaglio, apertamente avvicinato al fazzoletto di Desdemona («Per ridurre un geloso allo sbaraglio / Jago ebbe un fazzoletto… ed io un ventaglio!»), la riflessione di Scarpia mette a nudo la fragilità del cuore umano e la presenza del male:

 

«Va, Tosca! Nel tuo cuor s’annida Scarpia!… / È Scarpia che scioglie a volo / il falco della tua gelosia».E mentre la folla innalza l’inno «Te Deum laudamus: Te Dominum confitemur!», Scapria, «riavendosi come da un sogno» (così nel libretto), ammette, «Tosca, mi fai dimenticare Iddio! », e «s’inginocchia e prega con entusiasmo religioso». Qui l’ambiguità che si sviluppa tra i due piani, la religiosità insistente nei cori e gli abissi del cuore umano, che manifesta in aperta confessione di cinico sopruso:

«Bramo. – La cosa bramata / perseguo, me ne sazio e via la getto… / volto a nuova esca. Dio creò diverse / beltà e vini diversi… Io vo’ gustar / quanto più posso dell’opra divina!».

image

Foto per gentile concessione Ufficio stampa Teatro Massimo

Gli elementi accessori dello spettacolo sono tutti già collaudati in precedenti edizioni. Allestimento del Regio di Parma, la scena di William Orlandi quasi interamente occupata da una scalinata, rotta dall’ampia tela, a lato incombente l’Angelo, come i suoi vivaci costumi, resi suggestivi dalle luci in chiaroscuri di Venturi, sono quelli dell’edizione 1997 del Politeama. Collaudata pure la regia ripresa da Franconi Lee su quella ideata da Alberto Fassini. La soprano Norma Fantini (nomen omen) è maturata da quella sua prima presenza palermitana del 1998, Aida con José Cura in occasione della riapertura del Massimo, pur con qualche virtuosistica impetuosità di acuti, che ha coinvolto il tenore spagnolo Jorge De Leòn, “emergente”, perciò con tanta esperienza ancora da maturare. Nel complesso tutti hanno contribuito a questo successo; imponente e accattivante nel cinismo Giorgio Surian, più che per la vocalità per la sua sicura recitazione. Come sempre emotiva e suggestiva l’entrata del coro delle voci bianche, meno sentiti i corali alquanto lontani e fiacchi. La direzione del Massimo ha tenuto a ribadire l’eccezionalità del giovane direttore, che ha già diretto l’opera nella nuova produzione della Scala dal 15 febbraio al 25 marzo 2011: «Di assoluto interesse è la presenza sul podio del trentenne direttore d’orchestra israeliano Omer Meir Wellber, straordinario musicista, stella del panorama internazionale, già conteso e richiesto dai più importanti teatri di tutto il mondo». Un giornale azzarda di più: «La bacchetta magica di Wellber regala una “Tosca” da applausi» e lo definisce “astro nascente della bacchetta” e “astro emergente”. Vanto e titolo d’onore anche essere stato collaboratore di Daniel Baremboim a Berlino e Milano. Non c’è dubbio che la sua concertazione ha saputo trarre dalla partitura pucciniana nuove tonalità, cadenze più elegiache e fraseggi più vari, l’incanto insistente dei leit-motiv lirici, in una sua personale interpretazione del testo. D’altronde non può essere diversamente per ogni opera artistica che ha subito una trascrizione convenzionale. Così per la musica, come segni di suoni strumentali e vocali, così per la poesia, come di parola e voce. Difficile conoscere la resa che avrebbe voluto Puccini, impossibile oggi sapere dell’orchestrazione voluta da Mozart, Vivaldi o dal sordo Beethoven. Perciò le edizioni e le trascrizioni, addirittura le orchestrazioni. Soprattutto oggi, quando si è imposto il divismo dei direttori d’orchestra, della “bacchetta” a scapito dell’autore e degli esecutori, dal tempo delle vibranti esecuzioni di Toscanini a quelle trasognate di von Karajan, quasi fossero sacerdoti unici della musica. Qualcuno ricorderà l’ultima travagliata e contestatissima edizione “moderna” di Gilbert Delfo nel 2007, con il suo “simbolismo minimalista”, il suicidio con pistola senza salto nel vuoto, il moderno appartamento di Scarpia, il palcoscenico spoglio in finale. A proposito allora scene e costumi furono pure di William Orlandi, direttore l’israeliano Pinchas Steinberg.  Sono convinto che l’esecuzione musicale, ancor più la realizzazione di un’opera, nelle sue complesse meccaniche e presenze, è una resa corale alla quale tutti hanno dato il loro meglio, anche la sarta o l’elettricista (non a caso sono inseriti nei titoli di coda).

Dovuto l’omaggio a Salvatore Licitra.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Il nostro sito web utilizza i cookie per assicurarti la migliore esperienza di navigazione. Per maggiori informazioni sui cookie e su come controllarne l abilitazione sul browser accedi alla nostra Cookie Policy.

Cookie Policy