Oh! Venezia dell’anima!
(Carmelo Fucarino)
Carlo Goldoni
Lungo il Canal Grande invita ad una sosta l’insegna del celebre Casinò municipale. Sul retro nella stretta calle Nuova un’entrata e un’epigrafe che scompiglia ricordi palermitani, il Grand Hotel et des Palmes e l’epigrafe in via Wagner per la conclusione del Parsifal nel 1881, qui invece il sipario che cala con il fulminante infarto: «A Riccardo Wagner morto fra queste mura il 13 febbraio 1883». Altra sorpresa andando per campi e ponticelli un campanile di mattoni rossi un po’ storto e una maestosa facciata nella Salizada San Geremia. È la chiesa dedicata a S. Geremia e, sorpresa, anche a Santa Lucia. Nel mio immaginario la Santa della vista si identificava con Siracusa, la Santa della Luce che cadeva intorno al solstizio d’inverno,oggi il 13 dicembre per effetto del calendario gregoriano, festa solare antichissima come l’Hanukkah ebraica. Sull’altare maggiore la sua urna, il corpo offerto agli indiscreti voyeur da dietro l’altare, solo scoperti e mummificati i piedi, il piccolo corpo di una bambina.
E la curiosa, lunga storia di quelle misere spoglie, da Siracusa allora bizantina il periglioso viaggio fino a Costantinopoli, ove rimane per anni segno di venerazione, poi la celebre IV Crociata veneziana e il dominio sulla città (1204-1261) fino al saccheggio e altro difficile viaggio verso la laguna, sull’isola di S. Giorgio Maggiore. Nel 1279 in seguito al naufragio di pellegrini nuovo trasferimento nella chiesa di Cannareggio a lei dedicata e forse ristrutturata da Andrea Palladio. Napoleone nel 1805 sopprime l’ordine delle Serve di Maria che la custodivano. L’editto del sacrilego generale fu nulla se si pensa alla sorte che l’attendeva. Era destino che le sue spoglie non trovassero pace. Per costruire la nuova stazione ferroviaria la chiesa fu demolita tra il 1861 e il 1863 (il nostro teatro Massimo atterrisce con dicerie di fantasmi di suore) e il suo corpo fu ancora traslato e ospitato nella chiesa già di S. Geremia. Avrebbe rivisto la sua Siracusa nel dicembre del 2004, ma soltanto per sette giorni, una celere visita per il 17° centenario del martirio.
E la fiumana con protesi di valigie carrellate, visi di tutti i colori in fogge turistiche di massa, lombrico snodantesi senza interruzione da e verso piazza S. Marco, gioiello composito di stili, dal merletto di piani della facciata, allo scempio prospettico dello storto campanile rosso, al campanile dell’orologio, alle due possenti colonne del Leone, il tetramorfo, forse primitiva Chimera, e di San Todaro, il primo patrono (ora mi sovviene del “sor brontolon” goldoniano), il bizantino Teodoro (“dono di Dio”) che trafigge il drago, — la terza colonna scomparve in mare con la nave. Per ruberie coloniali la Serenissima fu in piccolo maestra di Londra, oltre alle colonne e al leone, giunsero i cavalli della quadriga asportati dall’ippodromo di Costantinopoli e collocati in un luogo anomalo e a loro estraneo. Accanto il mio luogo della mente, la cara Marciana, a me familiare per le sigle dei suoi codici greci, i preziosi codici dei tragici. E svoltando l’angolo il luogo degli incontri culturali, il mitico Caffè Florian, ove risuona ancora la voce del Giacomo, il seduttore per antonomasia che ammaliava le putee, di Goldoni che creava le sue damine incipriate (lo misero in posa in Campo S. Bartolomeo con cappello e bastone), Gaspare e Carlo Gozzi che divagava con l’esotica Turandot, e Parini e Pellico e Byron e Foscolo e Goethe e Dickens e il Gabriele D’Annunzio e mille altri affascinati dalle mitiche sale, ignoti come me.