A proposito di donne

( Renata De Simone )

clip_image001Frida Kahlo- Autoritratto

Una recente notizia di cronaca relativa alla composizione della giunta comunale di Roma mi costringe a mettere giù qualche osservazione necessaria a chiarire innanzitutto a me stessa un dubbio che da qualche giorno mi tormenta: ma chi ha ideato, ha sostenuto e continua a dar credito a ciò che si definisce con l’orrenda perifrasi linguistica di “quote rosa”, identificando con questa espressione un intervento che tuteli l’uguaglianza dei diritti del cittadino riguardo alla differenza di genere? Come se tale uguaglianza non fosse già autorevolmente sancita, insieme ad altre di cui spesso ci si dimentica, dai Principi fondamentali della nostra Costituzione.

Tralasciando la cattiva, inveterata abitudine di associare alle donne un colore, il rosa, non sempre a loro gradito e da qualche tempo, nella nostra città, prediletto, forse per motivi di appartenenza calcistica, anche da molti rappresentanti del sesso maschile, mi fa specie vedere assimilare le donne a una sorta di categoria a parte, depositaria di particolare attenzione da parte della Nazione, quasi a risarcimento di una ingiustizia sociale perpetrata da secoli. Una categoria protetta, destinataria di una quota, assegnata per legge, di precedenza e di “riserva”, a fronte di una situazione iniziale di svantaggio ( stavo per dire invalidità).Tutto ciò è per me fortemente offensivo e paradossalmente gravemente ingiusto. E’ offensivo privilegiare per un posto di responsabilità una donna in quanto donna e non valutarla per quelle capacità che in ugual misura vengono richieste a qualunque altro concorrente, senza mortificanti sconti legati al genere. Ma è ugualmente mortificante attribuire ancora solo alla donna certe competenze, legate alla organizzazione e gestione della famiglia che di fatto la discriminerebbero e la metterebbero in una situazione di svantaggio nella carriera lavorativa. Se pur questo è vero, non sarebbe più equo ed imparziale curare maggiormente i problemi della famiglia, l’assistenza ai figli, specie nella prima infanzia, come onere da dividere in coppia, piuttosto che regalare alla donna una “quota rosa” per ricompensarla dell’abbandono in cui è stata lasciata nella conduzione familiare e nella cura dei figli? E’ pur vero che le recenti norme sul diritto di famiglia tendono a coinvolgere entrambi i coniugi, ma di fatto le più pesanti incombenze familiari continuano a pesare sulla donna. Ancora più incomprensibili sono poi i commenti che ho sentito esprimere da più parti al provvedimento in questione. Chi concorda lo fa per in nome di una illuminata, a suo avviso, (o forse solo galante) considerazione dell’universo femminile, chi è contrario, e molte sono donne, ritengono la categoria “donna” poco adatta a posti di comando e di alta professionalità. E’ scoraggiante come, nel Terzo Millennio dell’umanità, non siano ancora caduti i forti pregiudizi che pesano su una parte consistente e rappresentativa di essa, che pure ha dato ampie dimostrazioni di sé al mondo che sembra ancora oggi non ricordarsene. E’ il paradosso italiano della par condicio, dell’uguaglianza fittizia professata a gran voce che sottende discriminazioni di fatto profondamente radicate nella nostra cultura, come quella di chi, nel 2011, si prende la briga di proteggere una inesistente categoria umana identificata dal suggestivo e mistificatorio colore della rosa.

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