Andromaca o dell’amore
(Carmelo Fucarino)
«Da piccoli inizi grande contesa agli uomini
provoca la lingua: questo i saggi dei mortali
evitano, avere discordia con gli amici»
(vv. 642-44)
Andromaca in cattività (F. Leighton, 1886-1888 ca.)
La tragedia, rappresentata verisimilmente dopo il 423 a. C., come si evince dagli accenni alla guerra antispartana, riprende il tema già trattato da Sofocle nella Ermione, figlia di Menelao ed Elena, promessa ad Oreste, ed invece data in sposa a Neottolemo. Il titolo riprende, come spesso in Euripide, il nome della protagonista, ma la tragedia si svolge in una struttura trimembre di peripezie e con uno sviluppo ad intreccio, complesso e quasi romanzesco. I diversi colpi di scena preludono ad un radicale mutamento della tragedia che in Euripide troverà l’apice in Oreste e soprattutto nel garbuglio di colpi di scena dello Ione. Per questa discontinuità di interessi e per la mancanza di unità, secondo quei canoni codificati dall’Umanesimo e da Trissino fino a Manzoni e attribuiti impropriamente ed erroneamente ad Aristotele, la tragedia è stata stroncata. Jebb l’ha definito addirittura «a poor play». Certamente davanti al miracolo di strutture e pathos del celeberrimo addio ad Ettore alle porte Scee (Il. VI, 390-502) è poca cosa. Naturalmente rimane sempre un mistero capire con quali criteri un erudito così attento come Aristofane di Bisanzio fra le 23 tetralogie di Euripide, per ben 93 opere, abbia scelto per la sua antologia di soli nove drammi questa tragedia.
Il nodo centrale dell’agon, l’azione tragica, è la peripezia di Ermione, il dramma della gelosia tipico in Euripide, ma qui stravolto rispetto al canonico e naturale rapporto vecchia-giovane, come in Medea e in Deianira: «essere assai invidioso è per natura la femmina e sempre ostile con chi ha marito in comune» (1881-82). Qui la gelosia sconvolge la mente della giovane, perciò non è valida la categoria della freschezza della giovinezza, ma è introdotto un tema nuovo, la sterilità della sposa legittima. Ironia della Moira, a dargli il discendente, il figlio Molosso, che perpetua la sua stirpe, è la vedova di Ettore, cioè una troiana, di stirpe diversa e nemica, preda di guerra, e quindi schiava e concubina. Ermione non vede altra soluzione, se non l’omicidio della rivale. Ma anche Menelao, suo padre, non può accettare che la stirpe greca sia rappresentata dal bastardo di una barbara. Perciò rapisce il piccolo con l’intenzione di eliminarlo. Anche in questa decisione, il re che fu fautore di una guerra personale e così luttuosa si mostra un egoista crudele. La salvezza giunge da Peleo che gli impone di liberare il fanciullo. La peripezia di Peleo mette in crisi Ermione che, vista sfumare la vendetta decide di uccidersi. Ma, giunto l’antico pretendente Oreste, se ne fugge con lui. Su tutte la peripezia di Andromaca, momento nodale e trait d’union dell’azione, personaggio grandioso che domina con il peso della sua storia, quell’indimenticabile momento in cui lei,“biancobraccio”, “riccodono”, correndo va incontro ad Ettore alle porte Scee. Qui il capolavoro del suo lamento, in canto di nenia, il bellissimo elegos nella forma metrica primitiva del geniale distico lirico, unico nella tragedia, quella struggente monodia: «Ad Ilio eccelsa Paride non nozze, ma un’Ate condusse come sposa nel talamo, Elena», che fu la causa della distruzione della sua città e pure «il mio sposo Ettore uccise che trascinò intorno alle mura, avvinto al carro», e poi l’esilio «anch’io fui strappata dal talamo sulle onde marine, cinta al capo di odiosa benda di schiava. Molte lacrime sul volto corsero, quando lasciai la rocca, lo sposo nella polvere. Oh, me misera, perché bisogna che io veda ancora la luce?». E il destino ancora implacabile della perdita, la minaccia di morte per l’altro figlio, «codesto pulcino, strappatolo da sotto le ali» (v. 441), l’uccisione dello sposo Neottolemo da parte degli abitanti di Delfi, ove era andato ad espiare l’offesa ad Apollo, il Signore degli oracoli e della giustizia che «si ricordò, come un uomo malvagio, dell’antica offesa» (1164-65). Perciò ancora un altro deus ex machina può dare una riparazione alla tragica sorte di una pena senza colpa, una cesura irreparabile ed oscura tra uomo e dio. Qui l’epifania di Thetis, madre di Achille e sposa di Peleo, che predice ad Andromaca il futuro matrimonio con Eleno, a riparazione del torto e per la perpetuazione delle due stirpi, la troiana e l’achea.
Ancora una tirata misogina, questa volta di Andromaca contro le trame di Ermione (269-273, trad. Romagnoli, Zanichelli)
«Strano è pur ciò: rimedî
alcun dei Numi escogitò per gli uomini
contro i serpenti velenosi, e farmachi
niun trovò contro le malvage femine,
che un male son piú tristo della vipera
e del fuoco: noi siam tali per gli uomini».
Ma strabilia per i tempi e anche perché detta dall’insensibile Menelao l’ammissione positiva della uguaglianza uomo-donna (672- 676, Romagnoli):
«Eppure, simili
l’uomo e la donna hanno diritti: questa
quando lo sposo le fa torto: quello
quando la donna gli folleggia in casa.
Ma quello in mano ha una gran forza: questa
sui genitori conta e sugli amici».
Il grande Jean Racine (1639-1699), oltre che una Ifigenia e una Fedra, scrisse una Andromaque (1667), da cui trassero libretti d’opera fra gli altri Giovanni Paisiello (Andromaca, 1797) e Gioacchino Rossini (Ermione, 1819), Solo questa dopo il fiasco iniziale fu ripresa nel 1987 al Rossini Opera Festival. Dostojevskij non riconobbe in Racine il debito verso Euripide, quando scrisse: «Hai letto Andromaca? Hai letto Ifigenia? Puoi dire che non sia un incanto? Forse Racine ha saccheggiato Omero, ma come l’ha saccheggiato! ».