Filottete o dell’escluso
(Carmelo Fucarino)
Jean-Germain Drouais
45. "L’uomo colpito da lebbra deve portare vestiti strappati, stare a capo scoperto e coprirsi la parte bassa del viso; egli deve gridare: "Impuro! Impuro!". 46. Egli è impuro per tutto il tempo durante il quale è colpito dal suo male; per questo dovrà abitare da solo, fuori dell’accampamento.
Levitico, 13, 45-46
Il XX secolo scoprì una nuova implacabile epidemia e classificò i nuovi appestati con un terribile misterioso acronimo, AIDS. Da allora milioni di uomini hanno sentito su di sé la maledizione che «il Signore disse a Mosè e ad Aronne». Perché anche oggi l’esclusione si è tinta di empietà e di sacrilegio, la punizione di Dio si è scagliata contro il due volte “diverso”.
Sulla scena del teatro di Dioniso alle falde dell’Acropoli di Atene all’incedere della primavera del 409 a.C. un uomo brancolava vestito di stracci, quelle di cui parla Dio come segno di lutto e di dolore (Levitico 10.6, Ezechiele, 24.17). Egli si preannunziava con «un grido che echeggia da lontano».
Paesaggio topografico, la «spiaggia della terra circondata dai flutti di Lemno, non calpestata da mortali né abitata» (1-2), una caverna con due bocche, ammasso di foglie, tazza di legno grezzo, legni e pietre per far fuoco. Il prototipo di Robinson è a caccia di cibo per mangiare e di erba per placare il fuoco della piaga purulenta.
Paesaggio dell’anima, cantato dal Coro dei marinai di Neottolemo: «Lo compiango io perché nessun mortale si cura di lui, né volge lo sguardo su un compagno, sventurato, sempre solo, soffre selvaggio dolore, si smarrisce per ogni inflessibile bisogno. Come mai, come mai può resistere, sventurato? O disegni dei mortali o stirpi sventurate di viventi per i quali la vita non è tollerabile!» (169-179).
Questa la sorte dell’eroe del quale Odisseo andava dicendo, «Filottete soltanto mi vinceva nell’arco» (Od. VIII, 219), di quello le cui sette navi con cinquanta rematori-arcieri per ognuna erano a Troia, «ma quello giaceva in un’isola soffrendo atroci dolori, a Lemno divina, ove lo lasciarono gli Achei perché spasimava per piaga maligna di serpe funesto. Egli giaceva laggiù straziato, ma presto gli Argivi stavano per ricordarsi presso le navi del signore Filottete» (Iliade, II, 718-725, Catalogo delle navi). Eppure in seguito fra i pochi «bene arrivò» da Ilio nella sua terra. Eppure durante i dieci anni di guerra la misteriosa imperscrutabile esclusione, inspiegabile e tragica tanto da ispirare le tragedie anche di Eschilo ed Euripide, da accendere il canto di Pindaro e Bacchilide. E poi Fénelon, Gide, Müller.
Qui sulla scena è l’escluso, furente e maleodorante, per quella infezione, quel mìasma, la “macchia” di cui non ha colpa alcuna. Odisseo invita il figlio di Achille, Neottolemo, all’indagine autoptica, tipica in Sofocle, a scrutare non visto il suo arrivo. Su quell’isola da dieci anni, numero simbolico del mito e del culto (dieci gli anni della guerra di Troia, dieci i comandamenti mosaici). Ed ecco l’uomo che urla il suo dolore, che grida la sua disperazione per la solitudine e l’esclusione dal consorzio umano. Nel suo odio sviscerato, senza prospettive, covato e chiuso nel suo cuore indurito e gonfio di rancori, dopo dieci anni di angoscia senza speranza conosce solo la vendetta.
Neottolemo appare a lui come speranza insperata, uno spiraglio di luce, la possibilità del ritorno. Ma perché e a quali condizioni l’escluso può essere riammesso nel contesto sociale? Odisseo, l’uomo dei mille raggiri, trama perché Neottolemo sia lo strumento dell’inganno, l’astuto raggiro, il ricorso al sòphisma, l’”artifizio”. Ma l’innocente, adescato a tradire, non ci sta: «Io, se certi discorsi soffro ad ascoltarli, mi ripugna metterli in pratica anche di più. Per mia natura non posso far nulla con arte malvagia […]. Ma son pronto a trascinare via quest’uomo con la forza, non con gli inganni» (vv. 86-91). Qui il nodo dell’azione tragica: la forza bruta o la persuasione ingannevole per riportare lo scomunicato nella società che ora ha bisogno di lui. Ed è Filottete a rifiutare, proprio ora che è promessa la fine dell’esilio, a meditare il suicidio, pur di non cedere al ricatto, «stacco con la mano il capo con tutte le articolazioni. Uccidermi ormai, uccidermi, questo solamente è il mio pensiero» (1207-08).
L’estrema irrisione della sorte, la società che lo ha respinto ora ha bisogno di lui, la guerra può vincersi soltanto con il suo arco, con l’uccisione di Paride. Però contro la sua ferma, inesorabile decisione nulla può più l’uomo. Solo una volontà superiore può sanare quell’offesa alla dignità umana, l’immotivata punizione, la contaminazione senza colpe. Il mìasma di Edipo, che gravava su Tebe con la peste, era conseguente al suo parricidio e incesto. Il teatro greco inventò il deus ex machina, noi pensiamo al miracolo. Questa volta però l’intervento non è semplicemente divino. Può convincerlo Eracle, il solo suo grande amico che gli promette di mandargli Asclepio, il dio medico a guarirlo dalla piaga (1437-38): «o tu che mi hai mandato la bramata voce, per tempo mi sei apparso. Non disubbidirò alla tua voce».
Soltanto l’ambiguità del cuore umano può spiegare il commovente addio al luogo della sua passione (il pathos che ammaestra di Eschilo): «addio, grotta mia custode, Ninfe delle acque e dei prati, e maschio battere del mare, e roccia sporgente, ove spesso, pur dentro l’antro, si bagnava il mio capo per i colpi di Noto [ …]. Ora, o sorgenti e fonte Licia, vi lasciamo, vi lasciamo ora, mai avendo immaginato la partenza. Addio, pianura di Lemno, in mezzo al mare, conducimi con buona navigazione senza lamenti, dove mi mandano la grande Moira e il consiglio degli amici e il demone che tutto doma e che ha ciò compiuto» (1453-1468).