Il Guardiano del Faro

(Aurora D’Amico)

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Si chiamava Fred Doyle ed era il guardiano del grande faro bianco. Aveva all’incirca quarant’anni e, tra i capelli castani, spiccavano certi ciuffetti grigi che pareva volere nascondere sotto un buffo cappello da baseball. Fred era un uomo alto e con un po’ di pancetta che fuoriusciva dalla stretta cinta dei pantaloni. Abitava nello stato della Georgia sin da quando era bambino e vivere tra la spiaggia e il mare rendeva piacevole la vita di quel semplice uomo.

Spesso vestiva di un blu vivace che rispecchiava le sfumature del mare, e appese ai jeans

vi erano sempre le chiavi del faro, che non perdeva mai di vista.

Era un tipo socievole e tutti lo conoscevano per il suo animo tranquillo, ma non aveva molti amici, probabilmente perché gli bastava l’affetto della sua dolce famiglia. Era sposato con la bellissima Janet, la proprietaria della caffetteria del paese, e insieme avevano avuto due figli: il pimpante Tom di otto anni e la piccola Alicia di soli quattro, capaci entrambi di mettere a soqquadro un’intera casa. La famiglia Doyle viveva in una villetta bianca, ormai danneggiata dal riverbero del sole, ma che continuava ad avere il suo fascino di casa sulla spiaggia.

Quando Fred si chiudeva dentro l’enorme struttura, era come se si chiudesse in se stesso, ma non intendetelo in modo negativo: gli piaceva avere un po’ di tempo per sé, un po’ di pace. I suoi figli a volte erano così attivi da essere in grado di colmare tutti i vuoti del giorno, e l’unico momento che aveva per riflettere era la sera, lì: nel faro. A volte si chiedeva se avesse fatto bene a prendere quello stile di vita. Che cosa sarebbe successo se avesse seguito le orme del padre e fosse diventato un poliziotto? Non gli piaceva l’idea. Aveva da sempre amato l’oceano: il suo colore, l’odore, il suono. Tutti i suoi sensi potevano convergere in quell’esistenza. Diceva sempre di essere l’unica persona ad amare veramente quella bellezza perché, a differenza della gente che ne godeva solamente d’estate, lui era sempre lì, primavera, estate, autunno, inverno per sorvegliarla, guardarla, contemplarla. Sì, perché era questo che faceva ogni giorno e ogni notte: contemplare le onde del mare che, sebbene non avessero altri spettatori se non lui, continuavano a danzare su un palcoscenico illuminato dalle stelle.

A volte si rendeva conto di quanto fosse utile il suo lavoro: il faro era l’unico strumento in grado di illuminare il mare notturno; una luce così potente, così forte, da arrivare tanto lontano che le navi riuscivano a vederla. Era stato lui ad accenderla, pensava.

Fred era fedelmente sul posto di lavoro ogni sera e si ritirava a casa verso le sei o le sette del mattino, quando il sole iniziava ad alzarsi e la battigia si ricopriva di orme di instancabili corridori. Faceva il guardiano del faro da almeno diciassette anni ed era diventata la sua più grande passione.

Purtroppo dovette andare in pensione a cinquantotto anni e fu sostituito da un altro uomo, la cui passione per i fari ancora doveva nascere. Decise di rimanere in Georgia e di comprare una nuova casa sulla spiaggia, abbastanza grande da potere ospitare i suoi nipotini per l’estate.

Fred Doyle continuò a godersi la bellezza del mare la notte e lo splendore del sole la mattina per altri dieci anni. Ogni tanto passeggiava fino al faro, il suo vecchio amico, e, accarezzata la parete, sorrideva: era invecchiato proprio come quella parete ormai rovinata dall’aria salmastra.

Un giorno al tramonto si sedette affaticato accanto all’enorme faro: strinse in un pugno la sabbia fresca e la fece scivolare nuovamente giù. Poi sollevò la testa e ascoltò il suono delle onde, fece un ultimo grande respiro, guardò il mare e morì, felice, con i colori, gli odori e i suoni impressi nella memoria.

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