Recensione a “La Casa di Bernarda Alba”,
(Lavinia Scolari)
Garcia Lorca
C’è una Palermo che pulsa d’arte tra le vecchie strade del centro storico. Su una di esse si affaccia il Nuovo Montevergini, un teatro allestito all’interno dell’ex convento e della chiesa barocca di Santa Maria di Montevergini, dove il 20 e il 21 dicembre 2010 è stata messa in scena La Casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca, per la regia di Sandro Dieli.
La scena è spoglia e c’è una scelta ben precisa che motiva questo dato scenografico, come, nella didascalia all’evento, spiega il regista: “Rispettosi del messaggio lorchiano abbiamo tolto tutto, scenografie, oggetti, abbellimenti musicali e di costumi per lasciare che a parlare fossero le parole e i corpi. E’ lo stesso Lorca a definire il teatro ideale come luogo in cui la poesia parli attraverso le ossa e il sangue.” Ed è davvero quello che accade durante lo spettacolo. I corpi assumono una forma plastica e “semantica”, parlano, pulsano, creano scenografiche pose; le voci, nel particolarissimo scenario, sembrano avvolgerti da ogni parte, vibranti e calde. Le luci disegnano spazi, si muovono alludendo e riempiendo il vuoto, che è un calamitante spazio cui gli attori danno vita. L’assenza non pesa, non si sente, non si vede. Si riesce quasi a scorgere la Casa di Bernarda, la si vede tramite i gesti della padrona di casa, i movimenti convulsi della Ponzia, che strofina con foga il pavimento.
È proprio lei, la Ponzia, ad aprire e chiudere la rappresentazione: una sorprendente Alessandra Pizzullo, espressione di una sapienza passionale e inquieta, ratio che osserva e comprende, sguardo esterno e interno che per prima scopre la morte e per prima sprona alla vita. Il fulcro della storia di García Lorca è la forza terribile e inquietante di queste donne di cui si incrina la sensualità e la dolcezza, una negazione della femminilità stessa che porta a una scelta audace, quella di affidare la parte di Bernarda a un uomo. Lo stesso regista è anche attore e la sua Bernarda è un ibrido indecifrabile, un despota nel quale non vi è più nulla di materno e femmineo, consunto dalla sua chiusura.
La voce stridula di Maria Josefa, la madre di Bernarda, graffia il petto del pubblico, come se prorompesse in echi sottili dalle pareti della sala. Straordinaria Stefania Blandeburgo nella parte di questa nonna che, nella sua senilità, mostra di essere l’unica ancora in grado di sostituirsi alla sterile femminilità delle sue discendenti. Lei oppone al grigiore delle loro vite, il bianco strascico da sposa avvizzita. In questo universo rovesciato solo un’anziana si apre alla vita, che è destinata ad essere soffocata. Lo dimostra Adela, la convincente Diana D’Angelo, che risalta nel suo abito candido, stridendo contro il nero della veste di Martirio, la talentuosa Daria Castellini. I costumi di Dora Argento non sono elementi accessori, ma aggiungono connotati identitari alla scena e ne sono parte integrante. Una timida freschezza è suggerita con spontaneità da Gabriella D’Anci e Rosaria Sfragara, rispettivamente Amelia e Magdalena, e da Angustias, Loredana Siragusa, l’unica che vive il sogno d’amore, ma imprigionata nell’asprezza dell’inautenticità.
Unico difetto: due serate sono davvero poche, perché dalla casa di Bernarda Alba – e dal teatro di Dieli – si esce con qualcosa di forte e bruciante nel petto.
Un grazie enorme da tutta la compagnia. L’articolo ha colto perfettamente il senso dello spettacolo e della nostra ricerca.
Grazie a voi! Questa breve recensione era un modo per esprimere l’entusiasmo e il gradimento per lo spettacolo, il lavoro e la riflessione che lo hanno supportato con successo. Complimenti da parte mia e delle persone che hanno assistito allo spettacolo insieme a me, anche loro profondamente colpite ed entusiaste.
Grazie, grazie di cuore per aver prestato così tanta attenzione e sensibilità per la nostra scelta.