In margine alla protesta al “Massimo”
(Carmelo Fucarino)
Riporto soltanto da Corriere della Sera – 9 dicembre 2010, LA NOSTRA CULTURA E L’ IMMAGINE DEL PAESE UNO STRANIERO ALLA SCALA, a firma Severgnini Beppe (sic).
“Un argentino-israeliano nato da genitori russi, prima di dirigere l’opera di un tedesco, in un teatro gestito da un francese di madre ungherese e voluto da un’austriaca, legge la Costituzione italiana. Una magnifica combinazione, se non fosse per un particolare: rischiamo di diventare comparse in casa nostra. Daniel Barenboim ha fatto bene, in attesa di lasciare il passo a Wagner e alla sua Walkiria, a citare l’articolo 9 («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»). Lo ha fatto davanti al presidente della Repubblica. Lo ha fatto alla Scala, prima di un’opera lirica. La Scala e la lirica sono due tra i primati che ci sono rimasti. Diciamolo: l’ elenco non è lungo, ormai. Risparmiare sulla cultura, per un Paese come l’Italia, è autolesionista. Certo, il momento è economicamente difficile. Ma l’unico petrolio nazionale sta nella nostra testa. Altro, non ne abbiamo”.
Corriere della Sera – 11 dicembre 2010, La lettera del giorno, a cura di Sergio Romano che risponde:
“Daniel Barenboim non è soltanto un eccellente pianista e direttore d’orchestra. Ha un passaporto israeliano, ma ha scritto con il palestinese Edward Said un libro di riflessioni sulla musica, «Paralleli e paradossi», pubblicato in Italia dal Saggiatore. Ha sfidato il bando decretato contro Wagner da una parte del mondo ebraico. Ha fondato un’orchestra giovanile composta da arabi ed ebrei che ha chiamato «Divan est-ovest»: le parole con cui Goethe intitolò una raccolta di poesie ispirate dalla letteratura dell’Oriente arabo e persiano. Ed è ormai, da un paio d’anni, un uomo della Scala”. Fatta la sviolinata, il “ma” a proposito della improvvida lettura:“Il problema, caso mai, è un altro: se un direttore d’orchestra abbia licenza e facoltà di utilizzare il suo podio per un intervento che non rientra tra le sue competenze artistiche e professionali.” Poi la difesa d’ufficio del provvedimento: “In primo luogo la campagna contro i tagli all’Istruzione e alla cultura mi è sembrata spesso corporativa, rituale, conformistica… Aggiungo che i tagli possono certamente uccidere istituzioni vitali e meritevoli. Ma qualche volta hanno anche il merito di eliminare i rami secchi”, le sovvenzioni al cinema. “In secondo luogo non mi sembra giusto che un’occasione artistica venga utilizzata per scopi diversi. Quando va a teatro, il pubblico attende uno spettacolo, non una dichiarazione politica o, come è accaduto in altre circostanze, sindacale. Se devono ascoltare, senza diritto di replica, parole che non hanno nulla a che vedere con le ragioni della loro presenza, gli spettatori diventano quello che gli inglesi chiamano una «captive audience», un pubblico di prigionieri costretti a subire passivamente uno «spettacolo» diverso da quello pattuito.”
E la tanto decantata libertà di parola? Stava parlando di calcio o della macabra sceneggiata Scazzi o di Yara? Certo occorrerebbe imbavagliarlo e farlo dirigere bendato. Così pure il dentista che, pagato da me per curarmi un dente, mi rintrona con la sua musica o stronca gratuitamente il Governo.
Corriere della Sera – 11 dicembre 2010, La lettera – Bondi: La Costituzione, le parole di Calamandrei e il vero responsabile dei tagli ai Beni culturali. Assente non giustificato alla prima, si giustifica: Calamandrei disse che “la nostra Costituzione è programmatica. Più che principi immediatamente vincolanti, conteneva un proposito di riforme, in ossequio ad una rivoluzione che si posticipava”. Ergo per la tutela recitata nell’art.9: “Non dice però come. Il tutto viene rinviato, per ogni altra questione, alle singole leggi ordinarie”. Ergo? Riconosce i tagli, ma non è lui il colpevole né l’”ottimo” Tremonti, ma, Prodi. All’accusa di avere “disertato” la prima oppone cose concrete, “il merito di avere approvato una riforma degli enti lirici” e per l’ambiente la difesa del Pincio e dell’Agro Romano. Condanna perciò la faziosità, l’intolleranza, “l’odio verso chi la pensa diversamente”.
I nostri operatori del Massimo hanno denunziato la politica dei tagli, leggendo lo stesso articolo 9.
Io avrei suggerito di ricordare soprattutto il motto, rimasto anonimo, che qualifica e giustifica l’esistenza di quel mostro architettonico dei Basile, padre e figlio (Illustrazione italiana, 6 giugno 1897, “detto Massimo, essendo per la sua vastità e capacità il terzo d’Europa, cioè vien subito dopo l’Opéra di Parigi e il Teatro dell’Opera imperiale di Vienna”): “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire“.
Per dirla tutta sui tempi che non mutano.
Re Umberto I ebbe a dichiarare: “Palermo aveva forse bisogno di un teatro così grande?”.
Il quotidiano La Sicilia Cattolica (15-16 maggio 1897) andò giù più pesante: “L’opera dell’iniquità fu consumata, e domani sera, dopo 33 anni dacché se ne discusse nel Consiglio Comunale di Palermo, s’inaugurerà il Teatro Massimo V.E. S’inaugurerà questo teatro maledetto che sorge sulle rovine delle chiese delle Stimmate, di S. Giuliano, di S. Marta, della monumentale di S. Agata di Scorrugi; e sui ruderi di due illustri e famosi Monasteri con vere opere d’arte; s’inaugurerà con lo sperpero di circa sette milioni che sono sangue del popolo; s’inaugurerà quando tra noi i poveri ammalati non trovano posto all’ospedale”. Ci mancava che non si chiamasse in ballo il popolo cafone che moriva di mancanza di sanità a causa del Massimo, come oggi gli Italiani non mangiano a causa dello sperpero della cultura. Lode agli obesi e alle tonnellate di cibo che ingrassano pure le discariche!