Il West al Massimo
(Carmelo Fucarino)
Fa un certo effetto vedere sul palcoscenico di un teatro d’opera dei finti cercatori d’oro del fiume Klondike, quelli che giunsero come cavallette da tutto il mondo alla ricerca delle lucenti pagliuzze, che entrano “gridando” (così nel libretto) Hello! hello!, appesi a funi senza fine ad una parete di carta pesta (libretto, “Ai piedi delle Cloudy Mountains, California, un campo di minatori nei giorni della febbre dell’oro. 1849-1850”). Ma questo fu il tributo del moderno e cosmopolita Giacomo Puccini al Nuovo Mondo. Dall’impressione ricevuta dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco, visto a New York nel 1907, ne uscì questo dramma, se non altro originale, dopo tante incursioni operistiche in epoche lontane e ambienti esotici, egiziani, babilonesi, cinesi, giapponesi.
Modernissima la scelta, anche se, ironia della sorte, proprio in quel 1910 si era sgonfiata la frenesia dell’oro e l’attività mineraria era quasi cessata. Dobbiamo anche dire che per i tempi fu un atto di estremo ardimento e di audacia, anche per Puccini che si esprimeva nella fase diversamente verista di Tabarro e Tosca, portare nella sacralità di un teatro d’opera un western con tutti i crismi e gli stereotipi, i mitici cercatori con i loro drammi di miseria e abbrutimento – straziante la disperazione di Larkens, in lacrime, Non reggo più, / non reggo più, ragazzi! / Son malato,/ non so di che… Mandatemi via! / Mandatemi via! Son rovinato! / Son stanco di piccone e di miniera! /Voglio l’aratro, la madre mia! – il saloon (che c’entra il nome Polka?), lo sceriffo alla caccia del solito bandito e i rudi cowboy dal cappio facile dell’abituale “giustizia sommaria”, la bizzarra partita a carte, la parlata con soggetto e infinito (Wowkle dire: tenere coperta noi per bimbo) e l’Ugh! della serva pellerossa. È la saga del Far West che italiani di una certa età ricordano con nostalgia, quella dei mitici albi a striscia di Sergio Bonelli, il Kit Carson e il Tex ora ripubblicato come opera cult, le pepite del ricchissimo avaro Paperon dei Paperoni. E poi la Minnie, l’eroina amata da tutti fino alla trasgressione della legge, vittoriosa in una società crudele e a tinte forti.
La spericolata messinscena del Teatro Massimo di Palermo ha voluto commemorare con una coproduzione con la San Francisco Opera e l’Opéra Royal de Wallonie il centenario di La fanciulla del West, su libretto avviato dal poeta Carlo Zangarini e concluso dallo scrittore Guelfo Civinini. Conforme allo spirito pucciniano il timbro impressionistico della musica, con impianto di verismo talvolta troppo folkloristico (Wowkle, la donna indiana di Billy) e con accenni di musica indigena, sperimentata già da Antonín Dvořák nella Sinfonia n. 9 in mi minore “Dal nuovo mondo” (op. 95), preludio degli abusati poemi sinfonici di musiche popolari, polacche, czarde etc., composta già nel 1893 a New York ed eseguita alla Carnegie Hall il 16 dicembre (Dvořák: “Nella Sinfonia n. 9 ho semplicemente scritto temi originali che racchiudono le peculiarità della musica indiana”): a parte i quattro corni, la varietà degli ottoni, le arpe e la celesta, completano l’organico orchestrale le campane tubolari, l’eliofono o macchina del vento, l’uso del glockenspiel o metallofono e l’imitazione del banjo, il tam tam.
Inoltre sulla scia commemorativa intrapresa quest’anno si è voluto rispettare con perfetto sincronismo (a parte il fuso orario e la sfida del giorno anomalo e scaramantico del venerdì, per di più lavorativo) la data, il centenario della prima, avvenuta al Metropolitan Theatre di New York il 10 dicembre 1910, direttore nientemeno che … Arturo Toscanini, tenore Enrico Caruso, soprano la ceca Ema Destinnová in arte Emmy Destinn, sua partner abituale “prima donna assoluta” e di talento leggendario, baritono Pasquale Amato, tra i più grandi del ‘900 dalla voce di timbro vibrante e chiaro e dalle grandi qualità di attore. Alla Scala giunse soltanto il 29 dicembre 1912.
Certamente l’esperimento musicale e le invenzioni narrative non sono all’altezza del migliore Puccini. E la maledizione dei libretti che una volta o sempre tradiscono la vetusta degli anni fino a rasentare in alcune locuzioni o frasi il comico e il ridicolo. Le interpretazioni della bellissima soprano Minnie-Meagan Miller (vi ricordate la bellezza e la voce di Anna Moffo?), appassionata nella romanza del primo atto Laggiù nel Soledad, del baritono Jack Rance-Roberto Frontali grande nella romanza Minnie, dalla mia casa son partito, del tenore Dick Johnson-Salvatore Licitra, travolgente nel racconto del secondo atto Una parola sola… Or son sei mesi e nella romanza del terzo atto Ch’ella mi creda libero e lontano, sono cresciute man mano fino all’entusiasmante exploit finale che ha avuto applausi convinti dal pubblico, come pure il Direttore Bruno Bartoletti.
Nota di colore: ad un certo punto nella sala aleggiò il brivido di un punto interrogativo, scusate, “punto di domanda”, come ci martella da qualche mese il passaparola dei cafon-chic mediatici che, penso, sconoscendo la lingua, credono di tradurre l’americano question mark, sebbene l’inglese question significa pure l’antico, modesto, elementare “interrogativo”, a cui sono affezionato come a un fratello, dicevo, incombeva fra bisbigli e sussurri, come il mistero dei dieci piccoli indiani (o i Dieci poveri negretti?),“Ma muore lui?”, “No, muore lei”. Chissà perché qualcuno doveva morire!