E continua la fiaba di Alice?
(Carmelo Fucarino)
Già, scritta nel 1865 da quell’ambiguo (come Andersen, “diverso”, “doppio”, brutto anatroccolo) matematico e scrittore inglese, reverendo Charles Lutwidge Dodgson, meglio noto con lo pseudo-nimo di Lewis Carroll, la Alice’s Adventures in Wonderland, che da allora tanto ha incantato e ter-rorizzato le bimbe.
Tutto era cominciato per la noia del non far niente: «Alice was beginning to get very tired of sitting by her sister on the bank, and of having nothing to do». Perciò, assonnata e istupidita dalla canicola, l’ipotesi di raccogliere i fiori nel prato per fare una ghirlanda di margherite. Il sole doveva averle dato alla testa se non si turbò davanti al Coniglio Bianco che correva dicendo: ‘Oh dear! Oh dear! I shall be late!’. Sullo schermo calato come sipario al Teatro Massimo scorrono le immagini, girate da mano ine-sperta, della Palermo di oggi, strade e Vucciria alla Guttuso, volti e carrettini, la massaia e il fattori-no che corre per la città. La compagnia della gatta Dina e … l’aula scolastica per la lezione di sto-ria: la carrellata sulle vicende di Palermo. In una originale performance multimediale, frastornante per un teatro lirico, fa da bordone l’orchestra Teatro Massimo, diretta da Arthur Fagen, che esegue il prologo-ouverture, nel nuovo allestimento e alla prima rappresentazione assoluta dell’opera Alice. Il libretto liberamente tratto dalla fiaba è di Francesco Micheli, non nuovo alla regia e alle perfor-mance teatrali, alla ricerca sperimentale sul linguaggio lirico. La musica è di Giovanni D’Aquila, assistente musicale dell’orchestra della Fondazione e presente già a Palermo con lo spettacolo “…a coloro che verranno”, su testi di B. Brecht, S. Bekas, N. Hikmet, B. Dylan.
È stato rivissuto nella Palermo incantata e riscoperta nelle sue meraviglie il vorticare nel tunnel oni-rico di una bambina moderna a cui ha dato innocenza e gestualità vergine e voce dolcissima Etta Scollo, con il suo esile figurino e la sua vocina malinconica e implorante, in una serata, a dire il ve-ro sottotono, per alcuni posti vuoti. Un’operazione multimediale, che per i patiti dell’opera classica è probabilmente riuscita ostica e urticante, anche se bisogna dire che la rivoluzione pucciniana do-vette suscitare uguali perplessità e rifiuti almeno da parte dei raffinati cultori di Mozart e Verdi.
Eppure la musica era gradevole, le coreografie affollatissime e variopinte, i cori ben amalgamati e vivaci, brioso anche il contributo di giovanissimi attori delle scuole palermitane.
Si sono snodate le avventure rivisitate nell’incanto delle nostre strade, quel girovagare nel sotterra-neo mondo onirico di nonsensi, di paradossi, di assurdità, sintesi di allusioni a personaggi, poemetti, proverbi e avvenimenti degli anni di depressione della regina Vittoria, nel travolgente gioco sulle norme logiche, linguistiche, fisiche e matematiche. Nella sua caccia al Coniglio sulla sua Lapa va-riopinta ripiena di montagne di orologi senza ore e nelle infinite metamorfosi fra i celebri Lepre Marzolina e Cappellaio Matto, fra animali magici, dalla finta tartaruga con il suo finto brodo di tar-taruga, parabola del vero brodo di tartaruga fatto di carne di vitello, in coppia col grifone, e le tarti-ne pepate, la quadriglia delle aragoste, il folle ricevimento del tè, infine per la strada per il castello della Regina, metafora della Furia, i soldati con il corpo di carte da ramino e la strana partita morta-le, qui non di croquet, ma di calcio, tra minacce di morte ed esecuzioni – tanto per fortificare l’animo delle bambine – al grido ricorrente della regina, ma anche di tutte le dittature remote e pre-senti, «Sentenza prima, verdetto poi», contro tutti i garantismi e giustizialismi.
E la certezza di Alice di risvegliarsi in una straordinaria Palermo delle meraviglie, la sempre decan-tata e mai esistita Palermo Felicissima, senza ruderi di una guerra di settanta anni fa e odierne mon-tagne di immondizia, senza strade buie e giardini di prospere erbacce e ricetto di cacche di cani, il vero, unico paese delle meraviglie, ove godere a pieni polmoni di un’aria purissima e balsamica, tra canti di usignolo e voli di farfalle.
Ora che la nostra Alice, palermitana doc dei nostri quartieri (ma perché qualcuno ha potuto pensare a Santa Rosalia? Che c’entra?) è diventata grande, resa matura da tante terribili avventure e disgra-zie a rotta di collo, ora che non teme più re e regine, primi ministri, crisi internazionali e federali-smi, partitismi, autonomismi e regionalismi, crack e bancarotte, ora che ha ritrovato il vero ritmo del tempo, può esultare e ricordare a tutti i falsi profeti e agli amanti del popolo bue, «non siete altro che un mazzo di carte»…
Dalla biografia di Francesco Micheli, librettista e regista, trascrivo: «Nato nel 1972 a Bergamo, diplomato a 24 anni alla “Paolo Grassi” di Milano, debutta nella regia d’opera nel 1997 con La Cantarina di Niccolò Piccinni, per il Museo del Teatro alla Scala». Perciò il suo innamoramento e l’appassionato encomio di Palermo ci giunge più nuovo e gradito.
Dall’argomento del teatro: «Alice capisce di essere uscita da un lungo strano sogno ma rapidamente intuisce di quanta verità fosse imbevuto il suo sognare: “Ho sognato la realtà, ho sognato la mia città”».
Le foto dello spettacolo sono pubblicate per gentile concessione del responsabile dell’ufficio stampa del Teatro Massimo, Fl. Tessitore